“La morte ce l’ho cucita addosso” mormora Richard Cantwell, eroico colonnello americano cinquantenne di stanza a Venezia nell’immediato dopoguerra, arrivato al termine della notte, devastato da una malattia terminale che sta curando male e dai ricordi del fronte conficcati nella memoria o cicatrizzati sulla pelle.

Nel tradurre per il grande schermo il romanzo scritto da Ernest Hemingway nel 1950, Peter Flannery ne ha esaltato la dimensione autobiografica. Non fosse per il finale (è uno spoiler?) che guarda al vero epilogo del leggendario scrittore, l’adattamento sottolinea i legami tra realtà e finzione – riferimenti all’epoca piuttosto evidenti e che peraltro hanno ritardato la pubblicazione italiana del romanzo di ben quindici anni – così da realizzare non solo una trasposizione ma anche una sorta di “biopic immaginario”.

Perciò la morte è la vera protagonista in Di là dal fiume e tra gli alberi: da subito, dalla visita medica che sentenzia il destino del protagonista, che mischia pasticche e alcolici con consumata nonchalance, alle passeggiate notturne in una città semivuota quasi spaventata dal ritorno alla vita (le riprese sono avvenute in piena pandemia: col senno di poi è una scelta molto acuta, perfino affascinante), fino ai preparativi per l’ultima battuta di caccia alle anatre.

Non è un caso che il libro abbia attirato l’interesse di maestri con una radicata confidenza con il senso della fine come John Huston, Robert Altman e John Frankenheimer; e forse non è un caso che arrivato dopo lunghissima gestazione nelle mani di Paula Ortiz, una regista impostasi con l’adattamento del tragico Nozze di sangue di Federico García Lorca, il film sia rimasto bloccato tre anni (a parte una sporadica uscita in Canada, paese che coproduce assieme a Gran Bretagna e Italia). Come dire: chi tocca Di là dal fiume e tra gli alberi deve necessariamente fare i conti con la morte, confrontarsi con gli spettri di una fine nota.

Matilda De Angelis in Di là dal fiume e tra gli alberi
Matilda De Angelis in Di là dal fiume e tra gli alberi

Matilda De Angelis in Di là dal fiume e tra gli alberi

(Filippo Ciappi)

Ed è proprio questo il punto di forza di un film tormentato e affascinante, una quieta danza funebre esaltata dalle luci di Javier Aguirresarobe che soffre di qualche scelta stonata o sbilanciata (gli scolastici cambiamenti dei rapporti di aspetto per “spiegare” ciò che sta accadendo, un anacronistico Tuca Tuca pericolosamente scult, un montaggio che nella seconda parte sembra cedere alla fretta abusando di ellissi) ma sa dare consistenza al dolore di un uomo ferito a morte in bilico tra l’ipotesi di un amore e la fine imminente, la ricostruzione del passato e la certezza del futuro.

Liev Schreiber è completamente aderente al ruolo, perfetto per un melodramma che guarda alle atmosfere del cinema americano degli anni Cinquanta (potrebbe essere il personaggio di un film di Richard Brooks). Un’ombra che attraversa una Venezia infestata di fantasmi minacciosi (i fascisti sopravvissuti alla caduta del regime, l’alta società che lo vede come un intralcio), immobile nella sua monumentale precarietà, abitata da corpi evanescenti come i palazzi della città che galleggia (il paesaggio con figure nel finale, quasi un tableau vivant itinerante).

E che riconosce nella contessina Renata Contarini, indisciplinata nobile decaduta e suo malgrado promessa sposa a un ricco rampollo locale, la vita e nient’altro: una sirena che arriva dalle acque per soccorrere il naufrago (il primo incontro al motoscafo), l’incarnazione della giovinezza, l’angelo che salva il disperato dagli abissi (la camminata sotto il portico). E Matilda De Angelis porta in dote una spontanea ribellione, l’insofferenza alla retorica, la capacità naturale di farsi icona romantica. Accanto a loro, Josh Hutcherson, Danny Huston, Laura Morante, Enzo Cilenti e, in ruoli piccolissimi forse sacrificato dal montaggio, Sabrina Impacciatore, Maurizio Lombardi e Massimo Popolizio.