La vita nel suo farsi. Semplice proposizione sulla carta, non sullo schermo. Ed è per questo obiettivo raggiunto con apparente semplicità che Cous cous (in originale La graine et le mulet) avrebbe forse meritato il Leone d'oro all'ultima Mostra di Venezia. Dopo Tutta colpa di Voltaire (esordio al Lido, Settimana della Critica, nel 2000) e La schivata, è l'opera terza del regista francese Abdellatif Kechiche, che si conferma magistrale direttore di attori non professionisti, sottratti alle loro rispettive vite per dare vita alla sceneggiatura. Sceneggiatura non di ferro, ma di metallo nobile: prove lunghissime - ha detto il regista, che nasce a teatro - prima del ciak, dopo il quale l'improvvisazione degli attori non ha (quasi) più margini di azione. Strano, quasi incredibile, tale è la vivezza delle discussioni, degli scambi, dei dialoghi che non abbandonano mai le inquadrature, spesso in primissimo piano, a sottrarre ai volti increspature, emozioni, tensioni. Razzismo, precariato, rapporti di genere, identità franco-araba: tutto presente, ma nell'effetto flou intorno ai personaggi, che parlano, mangiano, gioiscono e si arrabbiano. Girato a Sète, tra il Mediterraneo e lo stagno di Thau, La graine et le mulet ha proprio nel titolo gli ingredienti del cous-cous: i grani e il muggine, cibo d'elezione delle famiglie-Famiglia che ruotano intorno al protagonista Slimane (Habib Boufares, al pari della giovane Hafsia Herzi da Coppa Volpi), azzimato portuale che vorrebbe aprire un ristorante a conduzione familiare allargata, molto allargata. Sono queste dinamiche alimentari, letteralmente e figurativamente, a percorrere gli schermi di Kechiche: umani, troppo umani, fino a paventare il crudele accanirsi del destino su Slimane. Ma sono, comunque, quelle di Kechiche sorti cinematografiche magnifiche. E - auguriamo a lui e noi - progressive.