Armida Miserere, il destino nel nome. Prima donna direttore di prigioni in Italia, sul lavoro è stata forte e inflessibile come l'eroina della “Gerusalemme liberata” ma nel privato sconquassata da immensi dolori. Una vita, la sua, spesa letteralmente all'interno delle carceri di massima sicurezza, prigioniera anch'essa non meno dei detenuti. Condannata a un'esistenza che le regala solo barlumi di felicità, fino alla resa finale che la porta a un suicidio vissuto come liberazione. Ma nonostante le continue intimidazioni Armida non si è mai piegata, nemmeno di fronte all'uccisione del compagno freddato a sangue freddo dalla ‘ndrangheta. Tutta di un pezzo fino a quando decise di uscire di scena, lasciando amici e superiori a fare i conti con i sensi di colpa e l'inadeguatezza del sistema a cambiare le cose.
Per raccontare una donna così ci voleva un'attrice speciale, e Marco Puccioni la trova nell'intensa Valeria Golino. Interprete sempre sensibile, attenta alle sfumature, perfetta nel lavorare sui mezzi toni, in questa prova dà il meglio di sé e la sua Armida per fortuna non ha nulla dei santini tratteggiati da tanta pessima fiction televisiva. Evidente però che una prova così segna qualsiasi film, e in effetti Come il vento si identifica fortemente in Valeria Golino. Ma non è necessariamente un limite, giacché sceneggiatura e regia sono volutamente tese a restituire lo spessore umano di una donna che eccezionale lo è stata davvero. Semmai qua e là si sente la mancanza di un approfondimento dei fatti reali attraversati dalla vicenda, lasciati troppo sullo sfondo. Il ritratto femminile insomma è perfetto, quello dell'Italia leggermente sfocato.
Come il vento resta comunque un nobile esempio di quel cinema di denuncia di cui si sente costantemente la mancanza. Armida Miserere in questo senso è un personaggio emblematico anche dei nostri anni, dove chi è fedeli a un'ideale paga spesso un prezzo troppo alto in termini di affetti e libertà individuali. Mentre lo stato resta, inadeguato, a guardare.