Si al marketing, no al film. Diamo atto a J.J. Abrams, padre di Alias, Lost e regista di Mission: Impossible 3, di aver fatto centro un'altra volta. Se dovessimo valutare la sua nuova creatura, Cloverfield, per il lancio pubblicitario dovremmo parlare di operazione da manuale: finti servizi giornalistici, trailer montati ad arte, siti civetta, la Paramount che minaccia azioni legali contro chiunque diffonda in rete informazioni non autorizzate, alimentano misteri e tam tam mediatici. Risultato? Al primo weekend di programmazione negli States il film - costato 25 milioni di dollari - ne incassa 41. Tanto di cappello. Al secondo invece gli incassi crollano. Peccato. Perchè nonostante l'usura del plot - un mostro a metà tra Godzilla e Alien mette a ferro e fuoco New York -, l'idea di coniugare il gigantismo degli effetti speciali con la ripresa amatoriale, la spettacolarità con il realismo, sulla carta era interessante. La prospettiva monoculare a cui si affida l'intera operazione invece mal si concilia con le esigenze del kolossal. La variazione dei piani, degli angoli di ripresa, in breve le potenzialità di uno sguardo onnipresente si confermano ingredienti essenziali del disaster movie. E così il pedinamento di un gruppo di amici che cerca di portare in salvo una ragazza intrappolata nel suo appartamento alla lunga può stancare. Le apparizioni improvvise del mostro hanno un dosaggio limitato e vorrebbero camuffare la scarsa attitudine registica alla costruzione della tensione (la direzione è del misconosciuto Matt Reeves). Scomodare per l'ennesima volta sociologie (l'inconscia paura collettiva ovviamente, ma metterla in scena non equivale a suscitarla), e psicologie alla moda (il voyeur nell'era di YouTube non si accontenta più di "vedere" ma deve anche "mostrare") non cambia l'impressione di fondo: più che "l' insostenibile urgenza di distruggere New York", come la definisce il New York Times, il movente creativo sembra tradire stavolta un'insopprimibile esigenza di far cassa.