Annunciato da voci che lo davano come una delle sorprese del festival, Changhen ge di Stanley Kwan è un melodramma che attraversa quaranta anni di storia della Cina. La protagonista, Qiyao, all'inizio del film è una sedicenne dalla bellezza folgorante, presto reginetta di Shanghai e mantenuta di lusso di un boss della malavita locale. Peccato che le cose cambino: Mao sta per salire al potere, la città è in preda a loschi businessmen assai poco controllati dalla polizia, l'innamorato è costretto alla fuga e di conseguenza a lasciarla nel dolore. Faticosamente la nostra eroina si rifà una vita con il figlio di un ricco possidente, ma anche questo nuovo amore deve andarsene e rifugiarsi a Hong Kong, dove gli affari sono ancora permessi e il controllo degli agenti del Grande Timoniere non arriva. Altro legame e altra perdita, solo parzialmente stemperata dalla nascita di una figlia che non vedrà mai il padre. E poi, a controrivoluzione avvenuta e a liberalizzazione annunciata dalle prime aperture politiche, quando Qiyao ha ormai quasi cinquanta anni, la passione disperata e folle per un giovane che la porterà alla perdizione. Come spesso accade nei film di Kwan, la Storia resta però sullo sfondo, evocata e mai mostrata. Al centro amori e disamori, eros e thanatos, sacrificio e salvazione, un coacervo di sentimenti quale metafora di una nazione dalle mille contraddizioni. La protagonista, lo dice apertamente Kwan nella didascalia apposta in una delle ultime inquadrature, è infatti la personificazione di Shanghai, città tra le più evocative ed evocate dai cinema. Città libera, terra di trafficanti, mafia cinese, mercanti stranieri e belle donne. Non a caso Von Sternberg e Welles l'hanno citata in celebri film. E ancora meno entrambe le eroine dei loro film non sono esempi di purezza, così come non lo è l'affascinate Qiyao. Changen ge tuttavia non raggiunge le vette sublimi di La signora di Shanghai e di Shanghai Express, raffreddato com'è da immagini inutilmente patinate e inquadrature perfette spesso fini a se stesse. La passione resta troppo spesso fuori dallo schermo, insomma, e al pari della protagonista che di fronte al primo degli abbandoni raggela a lungo il dolore prima di esplodere in un urlo senza fine, fatica a sciogliersi. Non il capolavoro annunciato, comunque un'opera stilisticamente perfetta che, se non regala calde emozioni nemmeno invita ad abbandonare la sala.