Qualcuno ha voluto avvicinare Kill Bill di Quentin Tarantino a Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi. A consentire l’accostamento non è la presenza, in entrambi i casi, di una donna che impugna la spada o la somiglianza dello sfondo, una Cina (o un Giappone) arbitraria, del tutto inventata, "cinematografica" per definizione. Da una parte c’è un’immersione nel sangue (così zampillante da non fa paura a nessuno) e, dall’altra, non si assiste neppure a un arrembaggio e il sequestro di una nave si risolve in un tranquillo trasferimento dei viaggiatori. In Kill Bill le figure narrative sono tutte ostinatamente crudeli, in Cantando dietro i paraventi sono "politicamente corrette": la Vedova Ching è mossa dalla disperazione per la perdita del marito, l’Imperatore sotto il grande albero è in sofferenza, il vecchio capitano tratta con urbanità la ciurma e, infine, c’è il perdono. Tutti, in fondo, hanno le loro giustificazioni. E non a caso i pirati, in un processo per burla, sostengono di essere furfanti onesti, di sicuro non peggiori dei cortigiani di corte e dei funzionari che emanano norme ingiuste. Dietro alle cineserie di Olmi ci saranno pure le favole della nonna nell’area lombardoveneta con il rimando, quasi obbligato, alle gozziane Tremeralance; dietro Quentin la nonna tecnologica che era il cinema al tempo dei suoi splendori. Ma l’operazione di recupero di un immaginario perduto è la stessa nei due registi. I loro film vanno affiancati per una costante stilistica. Entrambi vivono in un’aura manieristica e quello che conta è soffermarsi sulla lezione di bravura, il gioco di prestigio d’alta classe compiuti dai due autori. Cantando dietro i paraventi è percorso da una tensione che tende a conciliare gli opposti: l’interno e l’esterno, il sensuale e lo spirituale, ribellione e sottomissione, urbanità (il capitano) e ferocia (il nostromo sfregiato). Il fluire dall’uno all’altro aspetto, contenuto in un ordito di straordinaria eleganza (l’esemplare fotografia di Fabio Olmi, la perfetta scenografia di Luigi Marchione), determinano il fascino del film. Si badi, intanto, al senso del "notturno" che emana sia dagli interni che dagli esterni; alla paura del vuoto che costringe a riempire di oggetti, visi, corpi il quadro; all’assenza di movimento in certe scene che deriva dal trascolorare dal "dentro" (il teatro) al "fuori" (la nave, il mare): al senso ultimo dell’intera operazione. Lo spazio del reale, pare dirci Olmi (e lo stesso fa Tarantino), è andato esaurendosi. Siamo in una trappola, in un gran postribolo. Io punto sul perdono. Ma non è detto che, accogliendolo, le fanciulle tornino a cantare dietro i paraventi.