Proprio vero che le favole sono senza tempo. E in alcuni casi possono essere anche senza parole e cromie, come ci insegna Pablo Berger, che nove anni dopo l'interessantissimo esordio di Torremolinos 73, in cui un eccezionale Javier Camara si reinventava attore porno, pensa bene di fare una variazione su un altro genere. O meglio, su molti altri, perché Blancanieves è sì una favola, ma virata in bianco e nero e in stiloso esercizio muto dallo spessore diverso rispetto all'acclamato e premiatissimo, sin troppo, The Artist.
Qui il mito diventa Storia, preludio alla crudele Spagna di Franco, e soprattutto cinema, spaziando da Bunuel a Browning a Burton. Tutti con la stessa iniziale, come Blancanieves, sarà un caso, probabilmente no, perché come Hazanavicious, Berger (ancora una B) calcola tutto alla perfezione, dalla bellezza della perfida matrigna Maribel Verdu, alla sensuale verginità della dolce protagonista, svelando senza doversi sforzare neanche troppo i messaggi reconditi di una storia che ai bambini fa paura e che gli adulti amano per tutte le sue intrinseche peculiarità sensuali.
Centra l'obiettivo il regista spagnolo, e fa bottino pieno grazie alla furba, ma anche perfetta, forma cinefila, più che cinematografica.
Blancanieves resta negli occhi, un gioco forse, ma molto ben riuscito, assai più del barocchismo di Tersim e il finto gotico steampunk della fedifraga Kristes Stewart. Qui c'è un'idea, e di questi tempi già non è poco.