Chiude in tono sommesso e con spirito engagé la ventesima edizione della Settimana della Critica. Documentario sull'Olocausto, testimonianza su quello che resta della memoria collettiva di un episodio atroce delle persecuzioni naziste, Belzec è un piccolo paese polacco, dove nel lontano marzo del '42, e fino a dicembre dello stesso anno, venne messo in funzione un campo di sterminio in cui in nemmeno dodici mesi, appunto, vennero annientati dalla faccia delle terra 600.000 ebrei polacchi. Evento speciale della SIC, il film di Guillaume Moscovitz, ha visto la luce fin dai primi mesi del 2000, proprio come sostiene il regista: "In occasione di un viaggio a Belzec, nell'aprile del 2000, ebbi come uno shock. Lo shock di vedere che non trapelava nulla: un boschetto, degli alberi, una radura. Un paesaggio assolutamente banale. Ma questa natura aveva qualcosa di spaventoso, irreale". Ed è proprio ciò che Moscovitz ha inteso esporre: la rappresentazione oleografica del non visibile, la visione inorganica del ricordo, l'immaginazione tout-court dell'orrore. Proprio dove oggi ci sono gli alberelli timidi e sfiorati dal vento, ieri c'era il piccolo campo di Belzec (263 metri di lunghezza per 274 di larghezza), uno dei massimi prodigi dell'efficiente macchina dell'Aktion Reinhard nazista. Lì si faceva sul serio: ogni giorno migliaia di ebrei venivano gasati appena scesi dai vagoni piombati. Metodicità e certosina applicazione hanno portato Moscovitz alla ricerca dei tre sopravvissuti. Rudolf Reder, Chaim Hirzsmann sono morti pochi anni fa, Braha Rauffman è l'unica rimasta. Lei è il viso dolce e gentile di una signora avanti con l'età che si lascia violentare dalle richieste dolorose di riesumazione della tragedia, rispiegando, e sembra che ce ne sia sempre bisogno, cosa fosse successo a Belzec, come a Treblinka o Sobibor. Ma il film di Moscovitz è anche materiale circumnavigazione del campo di concentramento, alla ricerca di testimoni 'esterni' alla mattanza. Contadini, semplici operai che hanno aiutato a costruire i forni crematori, panettieri che portavano pagnotte agli ufficiali del Reich, capistazione che accoglievano i treni della morte: tutta gente del luogo, tutta gente che non pensava che stesse accadendo uno sterminio proprio sotto i loro occhi e grazie anche alla loro disponibilità di tranquilli e poveri lavoratori di provincia. E forse Belzec, nella sua spuria messa in scena, nella sua composta riproposizione del dramma, può pure spingere lo spettatore alla fatidica domanda del: ma come potevano non sapere? Rinverdendo in ognuno di noi, la responsabilità di fronte ad ogni evento epocale che richiede, e all'epoca richiese, una inammissibile e imperdonabile silenzio omertoso. Per non dimenticare insomma, ma anche per non ripetere sempre la stessa tiritera dell'"eravamo obbligati a eseguire gli ordini".