"Si sieda. Grazie. Ed ora reciti. Che cosa? L'attesa". Ahmad, regista palestinese, non si sottrae al noioso compito di provinare profughi palestinesi nei campi in Giordania, Siria e Libano per il nascente Teatro Nazionale a Gaza. Lo fa per un favore personale all'amico e futuro direttore, prima di fuggire verso l'Occidente, un esilio sofferto e tanto concupito. Accompagnato da una famosa presentatrice televisiva e un cameraman rattristato, Ahmad entra in contatto con il dolore che tenta di dimenticare, di cancellare, di sopprimere. Ciascuno degli improbabili attori recita come può e come sa. Nella comicità di alcune situazioni si insinua però il dramma di chi attende veramente un ritorno a casa ed il ricongiungimento con la famiglia, mentre le illusioni divorano le speranze. L'attesa di un popolo diventa involontariamente ed inaspettatamente anche quella del regista, che capisce quanto sia difficile fuggire dalla propria terra, dimenticare la propria storia, tagliare le proprie radici. Il tempo per lui assume i toni sfocati di chi interpreta il lavoro non come un fatto professionale ma un percorso etico, una presa di coscienza, un anelito di giustizia, una certezza di vita. E Ahmad cede il ruolo al vero regista del film, Rashid Masharawi, lui stesso profugo, ma con vivo talento cinematografico alle spalle. Aspettare è alla base della sua esistenza e di quella dei quattro milioni di palestinesi sparsi nella regione. Si riuscisse a far tacere le armi, a sciogliere la cortina dei sospetti, a sovrapporre la realtà al set, Ahmad ed i suoi connazionali si troverebbero ad attendere non una patria o una casa, un parente o un figlio, ma a pensare un futuro diverso e meno dedito alla violenza, al sospetto, all'odio. Un film intelligente, appassionato, sincero, su uno dei tanti drammi irrisolti del nostro tempo.