Come definire Amore Carne, girato per la seconda volta con un cellulare da Pippo Delbono? Certamente è un film diario, oltre che riflessione sulla vita, sulla realtà, sul cinema stesso. Al centro appunto l'amore, inteso anche come sua totale negazione, e la carne/corpo di un artista che si mette a nudo e nulla tace di sé. L'inizio, in questo senso, è rivelatore nella sua straziante dirompenza. Delbono confessa di essere sieropositivo da oltre vent'anni e di convivere con una malattia che continua a insinuarsi lenta senza dire quando esploderà. Una prossimità con la morte che segna in modo inequivocabile lo sguardo del regista sul mondo, inducendolo a riflettere su quella sorprendente parabola che è l'esistenza.
Gli oggetti di indagine sono il rapporto con la madre, l'amicizia, la solitudine, la creatività, l'altro da sé. Elementi che irrompono senza rispettare alcuna logica narrativa, in quanto elaborazione pura di pensieri ed emozioni. Delbono non allinea i concetti, ma li lascia affiorare così come abitualmente vengono alla mente. Non a caso alcune volte a parlare sono esclusivamente le immagini, proprio come succede quando un sentimento affiora ma è troppo presto per dargli forma e trovare le parole per spiegarlo. Altre invece accompagna le inquadrature con la sua voce off: un fiume che nonostante il flusso incontrollato resta sempre serrato nello scorrere. Altre ancora è la musica a fare da sottofondo, bandito ogni altro rumore esterno. Se insomma le idee sono lasciate libere di fluire, lo è altrettanto il linguaggio.
Delbono elude sintassi e grammatica, impegnato solo a costruire un'estetica personale in grado di catturare squarci di vita, frammenti di memoria, lampi di un possibile futuro. Amore Carne è anche a tutti gli effetti un film sperimentale, in cui il mezzo scelto – il cellulare – si libera della sua invadenza nelle vite quotidiane per farsi strumento, per quanto non nuovo, di racconto.