Per aspera ad astra.

Futuro prossimo. La terra guarda alle stelle per trovare le risposte ai quesiti più profondi. Ma è afflitta da continui incidenti causati da sbalzi elettrici che si verificano a causa di esplosioni radioattive.

Il maggiore-astronauta Roy McBride (Brad Pitt) viene scelto per una rescue mission delicata: recuperare suo padre (Tommy Lee Jones), che credeva morto, partito 16 anni prima alla volta di Nettuno per l'ultra secretato Lima Project, che aveva come obiettivo quello di cercare forme di vita extraterrestre intelligenti.

L'intelligence americana ritiene che gli incidenti sulla Terra siano il risultato di raggi cosmici emanati da esplosioni avvenute proprio intorno a quelle orbite.

Prodotto e interpretato da Brad Pitt (è praticamente in ogni sequenza, fisicamente o con la voce over del flusso di coscienza), il primo film di fantascienza diretto da James Gray è un fluttuare continuo nei meandri esistenzialisti e filosofici - con derive kafkiane - della natura umana, debitore in modo plateale (fuori tempo massimo, forse?) di modelli cari tanto al cinema di Tarkovskij quanto all'estetica di Malick, oltre all'evidente rimando a Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Operazione ultra ambiziosa, con postproduzione lunghissima e travagliata, Ad Astra seduce ed ipnotizza (fondamentale il lavoro del direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema e l’apporto di Max Richter alla colonna sonora), ci chiede di affrontare questo peregrinaggio intergalattico (a tappe, prima la Luna ormai avamposto degli umani raggiungibile con shuttle commerciali dotati di hostess e qualsivoglia comfort, poi Marte, pianeta ormai semi-colonizzato, infine l'avvicinamento-thrilling a Nettuno) con lo stesso spaesamento del personaggio protagonista, finito in un ingranaggio stritolante – che cosa è accaduto, veramente, durante la missione del Lima Project? – ma mosso dal miraggio di poter ridurre quella distanza padre-figlio che fino a poco prima, e per molto tempo, riteneva definitivamente incolmabile.

“La Terra credeva in lui”. E, di conseguenza, Roy McBride da ragazzino decide di seguire le orme di questo padre idealizzato e avvolto da un’aura che l’assenza ha contribuito a mitizzare. Ma allo stesso tempo quel vuoto ha contribuito a formare un uomo solitario e incapace di esternare i propri sentimenti (le apparizioni quasi sempre silenziose di Liv Tyler sono il ricordo di un amore travagliato o la proiezione di un rapporto idealizzato, inesistente?), alle prese con continui e asettici test psicologici-attitudinali.

Come sempre, il cinema di James Gray prova ad indagare il senso delle relazioni familiari ed esalta il senso della ricerca quale motore indefesso che anima i suoi personaggi e, di conseguenza, la narrazione. A tal proposito, allora, Ad Astra rappresenta il balzo nell’ignoto profondo compiuto quale contraltare del precedente Civiltà perduta (2017), capolavoro tratto dal libro di David Grann, ispirato alla vera storia del leggendario esploratore britannico Percy Fawcett: “Era la storia di una persona per la quale la ricerca significava tutto”, disse all’epoca il regista.

Dall’inattualità di un’adventure-movie che attraverso l’esplorazione di giungle inospitali sprofondava negli abissi dell’esplorazione antropologica e umana al lirismo di un’estetica che stordisce visivamente e che ci inghiotte nel buio del silenzio cosmico, il passo è più breve di quanto possa apparire.

Sicuramente meno radicale e coraggioso del film precedente, Ad Astra - al netto di qualche inserto francamente superfluo e rivedibile (i predoni sulla Luna, le scimmie cannibali in orbita (evoluzione dei primati di kubrickiana memoria?...) - non perde comunque mai la sua innegabile forza attrattiva, fluttuando senza soluzione di continuità tra lo sguardo e il senso più profondo della visione.