Il nuovo e nono lungometraggio rischia seriamente di allungare la striscia laureata del turco Nuri Bilge Ceylan, già ricompensato a Cannes, tra gli altri riconoscimenti, di due Grand Prix (Uzak, 2003, e C’era una volta in Anatolia, 2011) e una Palma d’Oro (Winter Sleep, 2014).

Vada come vada, invero poco importa: About Dry Grasses ha l’ardire di riportare al centro - qualunque esso sia: filosofico, sociale, psicologico, politico – il cinema quale esperienza totalizzante, sfidante, irriducibile. Tre ore e più di durata, personaggi estratti e riconsegnati alla verità, una potenza espressiva dirimente e dirompente, che richiama la Settima Arte a una necessità esistenziale, un’urgenza indifferibile, un senso ultimo. Be’, vederlo sulla Croisette nel giorno di Indiana Jones e il Quadrante del Destino è straniante: non chiama nemmeno da che parte stare, semplicemente colma il nostro fabbisogno di qualcosa di importante, persino, fondamentale. Si vede come un film turco, si legge come un romanzo russo.

Il corpo a corpo di Samet (Deniz Celiloglu) con sé e con il mondo denuncia una vita agra, rivela memorie del sottosuolo, spende notti bianche, concedendosi quel che oggi più che mai è il primo privilegio dell’arte, ovvero del personaggio: non piacere, e non piacere in modo non accattivante.

È meschino, malfidente, prevaricante, sfigato, sopra tutto accidioso, lento alla felicità e pigro nel cuore: un relitto che non lascia intravvedere burrasca alcuna, piegato più che piagato, ridotto, nel remoto villaggio dell’Anatolia orientale dove insegna arte (palese contrappunto simbolico), all’abulia o, meglio, all’anoressia, la mancanza di desiderio e tutto. È l’allieva prediletta, Sevim (Ece Bagci), a denudare la faglia: al Nostro piace di piacere alla ragazzina, gli si gonfia il petto più che il cuore, e la reprimenda del sistema scolastico lo ferisce, più narcisisticamente che altro. Come tutto il resto, la reazione è vigliacca: meglio l’inerme collega e coinquilino Kenan (Musab Ekici), che è quel che appare, sicché incuriosisce.

Samet no, è una ferita sorda, la testa bassa di chi all’unisono è perduto e carica: il mal di vivere a incontrarlo, e tocca a Nuray (Merve Dizdar), insegnante che ha perduto la gamba in un attentato suicida: i due uomini, i due pretendenti se li mette nel taschino, ché Jules et Jim non abita qui, ma la verità dei rapporti per lei almeno ha piena residenza. Nuray non chiede nulla, ma chiede conto: la sua seduzione è quella, ancora, della verità, e la verità lo sappiamo fa male. Non a lei, che vuole capire che cosa la sua menomata condizione le disponga, ma a loro, e il sesso attiene all’esame di realtà, se non di coscienza: secca come stoppia, amara come l’astinenza, greve come la macerazione, Samet – il soccombente Kenan a rimorchio – incarna la fragilità dell’uomo, l’angoscia del maschio – colpo di genio, la finzione si interrompe svelando il set perché Deniz Celiloğlu possa prendere il Viagra prima di una scena di sesso… - e la deficienza dell’essere, ovvero la desistenza dell’esistere.

Ma non è una via solipsistica, una narrazione ombelicale, una tranche egoriferita, About Dry Grasses avoca a sé la disamina dei rapporti di genere, l’analisi dell’appartenenza e militanza politica, l’indagine dell’impegno civile ed esistenziale, risolvendosi al contempo in un potente e lacerante affresco sociale e in un disperato e ponderato affondo individuale. Sono convergenze parallele che muovono e animano ogni inquadratura, che i direttori della fotografia Cevahir Sahin e Kürşat Uresin votano alla bellezza ma prima al bisogno: non ci sono virtuosismi, solo virtù. Tra le tante non l’ultima quella di fare comunità per immagini e suoni, di trovare la possibilità dell’arcipelago di fronte, Samet, all’impossibilità dell’isola: a pestare queste erbe secche il succo è tragico, per atti presenti e arti mancati, per cani senza cibo e umani randagi.

C’è insieme alla cifra di Nuri Bilge Ceylan, l’exemplum letterario dei grandi russi, il retaggio del nostro neorealismo, su tutto, l’affabulazione di un autore che al c’era una volta preferisce il c’è stato sempre. L’uomo e le sue confessabili pochezze, espanse in relazione: perché dell’umano il comune denominatore è ineluttabilmente minimo. Prossimamente in Italia con Movies Inspired, un capolavoro.