Ci si può sentire fuori posto a otto anni (e se mettessimo un punto interrogativo alla fine della frase faremmo torto all’intelligenza). E più che negare l’evidenza, sarebbe meglio mettersi accanto ai dubbi, ai tormenti, agli smarrimenti.

Così fa Estibaliz Urresola Solaguren, che con 20.000 specie di api debutta nel lungometraggio dopo alcuni pluripremiati corti e documentari: non giudica e non teme, abbraccia il mistero e lo plasma, affascina e si lascia affascinare. Mettendo al centro Cocó, otto (Sofia Otero, meritato Orso d’Argento a Berlino 2023), che in realtà si chiama Aitor, abita il corpo di un bambino ma non si identifica nel genere maschile. E non fa niente per nasconderlo: in gita con la scuola l’accusano di aver rubato il costume da bagno di una sua compagna di classe. I genitori sono già in crisi di loro, così, per le vacanze estive, la mamma decide di portare Cocó/Aitor e gli altri due figli nella campagna basca, dove la nonna e la zia sono impegnate nell’apicoltura. Mentre la mamma cerca di contenerla, (quasi) vergognandosene, Cocó vive la sua estate, stagione che nella sua essenza significa attesa e cambiamento.

Come le sirene, che, essendo frutto della fantasia, fanno parte della realtà, impara a celarsi allo sguardo di chi non può capire, sfuggendo alla vista dei miopi che non accettano ciò che è nascosto in piena vista. E imparando dalle api, che nella molteplicità rivelano la loro unicità, che chi viene alla luce deve essere battezzato, perché le cose – le persone – esistono solo quando hanno un nome.

20.000 specie di api
20.000 specie di api

20.000 specie di api

È un film di desideri che bruciano nel fuoco affinché si avverino, 20.000 specie di api, e di segreti che si rivelano nelle notti tormentate. Un racconto di formazione che è doppio e parallelo, perché sia la bambina che la madre (l’ottima Patricia López Arnaiz) stanno cercando un posto nel mondo: nel descrivere un’evoluzione che nasce dentro si manifesta fuori, Solaguren riflette proprio sul concetto di trasformazione, che non a caso nella parola stessa contiene formazione. Il cuore batte senza sentimentalismo, ma le frequenze si fanno più intense nei magnifici momenti en plein air con Cocó e la zia, dove si impongono l’ascolto e l’accoglienza e le api non si rivelano tanto metafore di una condizione quanto strumenti di comprensione della realtà.

E Solaguren, che trova autenticità nell’aderenza alla terra e nel dialogo con la natura (Le meraviglie con Alice Rohrwacher non è un riferimento peregrino), recupera anche una dimensione tattile che non rinuncia a suggestioni magiche e risonanze religiose: da una parte quasi preservando la favola nel quotidiano dando voce all’incanto dell’infanzia, dall’altra dando concretezza a una spiritualità popolare che può aiutare a scoprire qualcosa di sé (la storia di santa Lucia è fondamentale nel percorso di riconoscimento). Complesso senza complicare, semplice evitando le semplificazioni, libero ed epifanico.