Arriverà su Disney+ il 5 aprile, in tutta Europa. S’intitola The Good Mothers ed è la serie in sei episodi basata sull’omonimo bestseller del giornalista Alex Perry. Adattata sullo schermo da Stephen Butchard e diretta dal regista inglese Julian Jarrold (The Crown, Becoming Jane), nonché dalla nostra Elisa Amoruso (Chiara Ferragni-Unposted, Maledetta Primavera, Time is Up), che abbiamo intervistato dopo la vittoria dell’Orso d’Oro ottenuto nella sezione Berlinale Series Award del recente festival internazionale.

Vi aspettavate di vincere questo premio?

Nessuno se lo aspettava, è il primo anno che la Berlinale istituisce oltre a una sezione per le serie tv anche un premio così importante e quindi ci sentiamo molto onorati e molto felici. Questo è un riconoscimento che servirà a dare visibilità alle storie di queste donne che hanno osato sfidare la ‘ndrangheta e che altrimenti sarebbero rimaste invisibili dato che anche in Italia non sono così conosciute.

Chi sono queste donne?

La serie parte dal romanzo omonimo di Alex Perry. Nel libro sono state raccolte la maggior parte delle testimonianze di queste donne reali e l’adattamento letterario della sceneggiatura di Stephen Butchard tiene molto in considerazione la realtà delle loro storie. Abbiamo cercato di fare avvicinare i personaggi della serie a quelli della realtà, in particolare le attrici hanno studiato molto i loro personaggi, Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Denise Cosco, Concetta Cacciola ovvero le protagoniste della serie interpretate da Micaela Ramazzotti, Valentina Bellè, Gaia Girace e Simona Distefano.

Gaia Girace e Micaela Ramazzotti in The Good Mothers - Ⓒ 2022_ Wildside s.r.l. – House productions LTD_ph.Claudio Iannone
Gaia Girace e Micaela Ramazzotti in The Good Mothers - Ⓒ 2022_ Wildside s.r.l. – House productions LTD_ph.Claudio Iannone

Gaia Girace e Micaela Ramazzotti in The Good Mothers - Ⓒ 2022_ Wildside s.r.l. – House productions LTD_ph.Claudio Iannone

Che storie si raccontano?

È una storia universale nella quale si possono riconoscere tutte le donne del mondo che vivono in una situazione di oppressione. In questa serie abbiamo cercato di ricostruire un universo molto dettagliato e preciso, siamo partiti dal particolare per arrivare poi all’universale. Raccontiamo donne all’interno di famiglie della ’ndrangheta sottomesse dai propri padri e dai propri mariti, donne che vivono in carcere e private di qualsiasi libertà, decisione e autonomia sulla propria esistenza. Quando ho letto per la prima volta il romanzo di Alex Perry mi sembrava di avere sotto gli occhi un racconto di un’altra epoca, mentre erano dei racconti di un’epoca contemporanea. Questo mi ha molto colpito. Ancora oggi nell’Italia del Sud ci sono situazioni di questo genere perché oggettivamente è come se non avessimo fatto passi avanti. O meglio, li abbiamo fatti solo in determinate aree del nostro paese. In questo senso dobbiamo lavorare di più e questa storia vuole parlare a tutte le donne che vivono nel bene e nel male, nel piccolo e nel grande, situazioni di oppressione da parte di un sistema che ancora privilegia il potere maschile rispetto a quello femminile.

A proposito di potere maschile e femminile, le donne hanno uno sguardo “diverso” dietro la macchina da presa?

Le donne hanno uno sguardo diverso non in quanto donne, semplicemente perché ognuno ha uno sguardo diverso nell’esprimersi artisticamente, che sia dietro o davanti la macchina da presa o in una qualsiasi forma d’arte. Penso che sia una questione di sensibilità. Da parte mia in questa storia c’è stata una grande attenzione nell’approfondire le relazioni tra le madri e i figli perché questo è un tema che sento molto forte. Il dolore di una madre separata dai propri figli perché è in carcere o di una donna che deve portare con sé i figli nel programma di protezione dei testimoni era qualcosa che sentivo mi appartenesse. Questo tipo di relazioni sono sicuramente più sentitie dalle donne rispetto agli uomini.

Che tipo di esperienza è stata a livello produttivo?

Un’esperienza armonica perché la produzione italiana Wildside, società del gruppo Fremantle, ha lavorato molto bene con quella inglese, ovvero la House Productions. Io e Julian Jarrold da registi abbiamo lavorato insieme sulla scelta del cast e delle location impostando insieme la sceneggiatura e il lavoro, che è stato diviso equamente. Più o meno abbiamo girato dieci settimane ciascuno, tra la Calabria, alcune parti del Lazio, Genova e altre location che abbiamo cercato di ricostruire il più possibile dal vero. È stata un’esperienza importante perché era una serie con tanti contenuti e un bel budget, quindi produttivamente è stata una grande scommessa riuscita nell’essere una fusione tra due paesi.

Elisa Amoruso e Julian Jarrold con il premio della Berlinale 73
Elisa Amoruso e Julian Jarrold con il premio della Berlinale 73

Elisa Amoruso e Julian Jarrold con il premio della Berlinale 73

E a livello tecnico, visto che tu giri gli ultimi tre episodi, come è stato dirigere solo “una parte” della serie e non tutta?

Io e Julian abbiamo firmato insieme la serie e l’abbiamo girata a metà. Lui ha diretto i primi tre episodi e io gli ultimi tre, cioè il quarto, il quinto e il sesto. Abbiamo impostato il lavoro insieme e condiviso moltissimo i nostri punti di vista e le nostre visioni sulla storia e sul modo in cui avremmo voluto raccontarla. Abbiamo cercato di fare in modo che non ci fosse differenza tra le mie puntate e le sue puntate. Questo era lo scopo perché l’intento più alto è stato quello di fare passare dei contenuti importanti per entrambi.