Negli ultimi due giorni, il cinema di animazione ha risollevato le sorti del Concorso della Berlinale. C'è da sperare che la giuria presieduta da Kristen Stewart non dimentichi di dare giusto riconoscimento ad un formato espressivo che a Berlino ha confermato la sua versatilità e il suo specifico potere di reinvenzione del reale e di proiezione del fantastico che si sono potuti esperire anche nelle proposte delle sezioni collaterali.

In concorso, ha brillato fulgidamente Art College 1994 di Liu Jian, terzo lungometraggio dell'autore che aveva sorpreso nel Concorso della Berlinale 2017 con Have a Nice Day. Ma se il film precedente di Liu si poteva etichettare come un thriller tarantiniano, questo suo nuovo lavoro s'inscrive più in un solco linklateriano di memoria giovanile anni Novanta, tra primi amori, musica grunge, ricerca di un'identità artistica e disillusione dell'innocenza perduta. Il tutto si dipana sullo sfondo della Cina della metà degli anni Novanta, un'epoca di apertura al mondo esterno e all'occidente in particolare, che porta al desiderio di confrontarsi con i possibili, esistenziali e creativi, che queste nuove porte aprono. Intriso di autobiografia, il ritratto collettivo di una generazione di studenti di un'accademia d'arte che Liu disegna ha la qualità dolcemara di un'istantanea su un tempo andato, folgorante, contraddittorio e irripetibile. Inevitabilmente, il racconto dell'ingenuità di quegli occhi spalancati sul mondo si pone in dialettica con un presente in cui forse la Cina si è progressivamente richiusa su sé stessa. E sarà per questo che la censura locale ha tenuto bloccato per mesi Art College 1994, quando avrebbe dovuto fare la sua prima mondiale nell'ultima Quinzaine des réalisateurs diretta da Paolo Moretti lo scorso maggio.

Fortunatamente, questo sublime esempio di animazione esteticamente ricercata e personale - memorabile pure per un cameo vocale di Jia Zhangke (che non è il solo cineasta indipendente a prestare la propria voce al film) nel ruolo di un artista di successo internazionale tornato all'accademia per tenere un seminario – è ora accessibile agli occhi del mondo. Ed è sicuramente una delle più belle e necessarie testimonianze cinematografiche giunteci dalla Cina negli ultimi anni.

Lavora invece su un repertorio figurativo e narrativo più consolidato l'altro film d'animazione in Concorso, Suzume di Makoto Shinkai, uno degli autori di più grande successo dell'anime contemporaneo. L'eroina eponima del film, studentessa liceale di una città portuale del Kyushu, seguendo un giovane sconosciuto di cui s'è invaghita, si imbatte su una misteriosa porta che si rivela accesso e al contempo blocco verso il divino mondo sotterraneo e parallelo in cui si contorcono le creature che causano i terremoti. Aprendola e sbloccando la creatura pietrificata che faceva da sigillo a questo cancello, Suzume innesca una catena di potenziali scosse telluriche. La ragazza cercherà di fermarle, con l'aiuto del giovane adone, che nel frattempo la dispettosa creatura/sigillo che ha preso le sembianze di un gatto ha trasformato in una sedia a tre gambe. Incalzante nel ritmo e rutilante nelle invenzioni grafiche, Suzume prosegue con successo il percorso che Shinkai ha perseguito con i suoi precedenti blockbuster Your Name e Weathering with You: una sapiente commistione di fantastico che rielabora elementi della tradizione mitico-folklorica giapponese in chiave contemporanea e un racconto di formazione sentimentale che pone la protagonista di fronte a scelte che fanno confliggere l'interesse personale e quello collettivo. Il tutto impreziosito da derive surreali degne di Lewis Carroll – i folli, travolgenti inseguimenti del gatto e della sedia a tre gambe.

L'eclettismo dell'animazione tra i poli della rivisitazione del passato e la proiezione del futuro era è stato testimoniato pure, rispettivamente a Panorama dal film di apertura La sirène di Sepideh Farsi e a Encounters da White Plastic Sky di Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó. Nel primo, la regista iraniana trapiantata in Francia, racconta i giorni tumultuosi dello scoppio della guerra Iran-Iraq, con l'attacco e l'assedio della città di Abadan, centro nevralgico dell'industria petrolifera iraniana. Il prisma che la regista adotta è lo sguardo dell'adolescente Omid, che rifiuta di partire e diventa il perno di un affresco appassionante e complesso dell'umanità della città che resiste, tra i tumulti dei bombardamenti e della distruzione e le fughe nell'immaginario (con una bellissima citazione di Goldrake!). La sirène si presenta, quindi, come sentito banco di prova del potere dell'animazione nel ricreare il trauma storico attraverso lo sguardo della gente comune.

Con White Plastic Sky, ci si proietta invece in un futuro distopico, nella Budapest del 2123. La terra è morta, non ci sono più piante e animali e quel che rimane dell'umanità vive sotto una volta di plastica in un mondo completamente artificiale. Ma per continuare ad esistere, gli individui sono chiamati dallo Stato a sacrificarsi al raggiungimento dei 50 anni, onde diventare piante che sostengono la vita della città, fornendo ossigeno e cibo. Quando a seguito della morte del figlio, Nora decide di offrirsi come volontaria per l'impianto del seme nel cuore che la renderà albero prima del raggiungimento dell'età prevista, il marito, lo psichiatra Stefan, decide di ribellarsi al sistema. Ne segue un'avventura post-orwelliana che si configura come riscoperta dell'amore e della bellezza del mondo. Un'opera che trascende l'urgenza di un messaggio ecologico molto contemporaneo grazie ad una grande bellezza figurativa, debitrice certo di molto immaginario fantascientifico, ma sovente semplicemente abbacinante.