Siccome le classiche love-story ci sono venute a noia ma il sentimento continua a eccitare le menti di scrittori, filosofi, psicologi e cineasti, ecco che siamo passati dall'amore come effetto all'amore come difetto, una debolezza della ragione che non si capacita né demorde: studiare, analizzare, sviscerare. Innamorarsi è diventata una faccenda tremendamente seria e complicata. A questo approccio obbediscono tante moderne elucubrazioni in punta di cuore, almeno dai Frammenti di un discorso amoroso in poi. Pure il cinema, che pure fino a qualche decennio fa era ancora il porto franco di ingenue passioni, si è piegato al tarlo decostruzionista.
E' un processo nel quale si inserisce con qualche merito un'operazione come 2 Automnes, 3 Hivers del regista-sceneggiatore francese Sebastian Betbeder (in concorso a Torino 31). Raccontare l'incontro della vita di tre 30enni, due uomini e una donna, frullandolo con crisi esistenziali, imprevisti della natura e accattivanti soluzioni narrative.
Innanzitutto la cornice che ospita questo terzetto di storie è quella ormai abusata della docufiction, con i nostri personaggi che guardano in macchina e raccontano a un ipotetico intervistatore vicissitudini sentimentali (e non). Ma la struttura, tanto quella narrativa quanto quella espressiva, è molto più fluida dovendo evitare di narcotizzare il pubblico con le sole chiacchiere e la frontalità monocorde di un finto reportage. Così la fotografia di Sylvain Verdet alterna grana e pastosità del 16 mm (usato soprattutto come marcatore di situazioni "vive", occasionali, non ricostruite in studio) alla pulizia del digitale ad alta definizione (con il quale vengono catturate le scene con un maggiore grado di simulazione, come quelle relative a flashback e sogni), mentre la drammaturgia compone, secondo una bizzarra scansione in capitoli, i momenti fondamentali di ogni storia alternando vari registri, dal comico al drammatico all'onirico. Un riferimento utile potrebbe essere quanto fatta da Valerie Donzelli per La guerra è dichiarata. Tuttavia qui viene meno la forza bruta dell'autobiografia (la Donzelli metteva in scena la vera malattia del figlio) che preme sui meccanismi dell'illusione e li squarcia, causando un singolare cortocircuito. Qui è l'esatto opposto: la finzione si traveste da biografia (tipo Real Time), sappiamo che ciò che vediamo è finto pur sembrando vero. D'altra parte, il modo in cui è concepito il film - pur con tutte le invenzioni del caso, siamo di fronte a una narrazione quasi interamente monologica - c'impedisce di identificarci pienamente con i personaggi o di lasciare che loro vivano al posto nostro sullo schermo. Il pubblico resta passivo, mentre qualcuno (l'interprete) gli sta raccontando la storia di qualcun altro (il personaggio). Questo spiega l'impressione di "chiusura", come se tutto fosse già dentro il film senza altra richiesta.
Resta l'originalità del tentativo, la sensibilità della scrittura, le dolci, malinconiche musiche di Bertrand Betsch e la grande simpatia dei protagonisti (Maud Wyler, Bastien Bouillon e Audrey Bastien). Non è poco, ma al cinema delle belle parole continuiamo a preferire quello delle incerte immagini.