Una volta si diceva: fatti con lo stampino. Oggi c’è l’algoritmo ma l’esito è quello.

Immaginiamo già che cosa la “piattaforma” abbia chiesto ai produttori di 1899, Baran bo Odar e Jantje Friese: rifate Dark (la serie tedesca da far male alla testa per i suoi attorcigliamenti spazio-temporali), ma anche meno. Ok il rompicapo, ma senza esagerare. E poi un bella eroina come si deve, un melting pot più aggressivo, la quota lgbt e un mistero al largo, tra le acque profonde e nerastre dove Lost incontra Titanic (ma anche Matrix, fate finta però di non averlo mai letto).

È ovviamente una narrazione di frontiere, di passaggi. Di botole che si aprono, di fornaci che bruciano e di vasi comunicanti. Del resto, il 1899 è un anno-cerniera. Passeggeri di prima, seconda e terza classe come nemmeno nella ballata di De Gregori. Non ballano l’ottuso ballo del progresso, ma hanno una destinazione: l’America. Chi migra e chi scappa. In mezzo, storie, storie, storie. Con un comune denominatore: tutti hanno un passato, ed è orribile. Dal capitano che ha perso l’intera famiglia alla dottoressa sfuggita da un manicomio dove forse l’aveva rinchiusa lo stesso padre. Traumi. E simboli, anche smaccati.

Il piroscafo su cui viaggiano si chiama Kerberos che, per chi fosse digiuno di mitologia greca, è il mostruoso cane a tre teste custode dell’ingresso agli inferi. C’è un secondo piroscafo, sperso nell’Oceano con i suoi passeggeri, che si chiama Prometheus. E Prometheus non è solo il prequel di Alien (che pure in qualche modo qui c’entra), ma un altro figuro mitologico molto noto: l’umano che tentò di rubare “il fuoco” (leggi il dono della conoscenza e dell’immortalità) agli dèi, per donarlo agli uomini. Insomma, serve un po’ di infarinatura classica. Che male non fa. A questi indizi, gli sceneggiatori sin dalla prima puntata ne aggiungono un altro: uno scarabeo verde scintillante sgusciato fuori dal Prometheus quando Il Kerberos vi s’incaglia per obbligo di salvataggio (la famosa legge del mare…) e le ossessioni del capitano, smanioso di sapere che fine hanno fatto i suoi passeggeri. Ebbene, lo scarabeo è un altro mito, stavolta, di ascendenza egizia: nella terra dei faraoni era simbolo di resurrezione, di rinascita. Egizia è anche la piramide che tiene in mano un misterioso bambino, scampato, pare, all’allegria di naufragi.

1899 (credits Netflix)
1899 (credits Netflix)
1899 (credits Netflix)

Dunque: traumi, viaggi, rinascita. Come se non bastasse gli autori piazzano in coda al secondo episodio la struggente Child in Time dei Deep Purple, che avevamo già ascoltato imperiosa ne Le onde del destino di Lars von Trier, altro film di miracoli. Greci, egizi, enigmi: se ci aggiungete le navi, sembra uno spinoff di The Terror, un’altra serie tv, stavolta di proprietà di Amazon, di cui Ridley Scott (Prometheus) era guarda caso produttore esecutivo. Non siamo al decalco però.

L’esoterico e il soprannaturale sono falsi indizi. Da questo momento twist e rivelazioni si sprecano, fino allo “sconvolgente finale” che, come un roller coaster, ribalta ogni assunto. Il fatto è che questo gioco a tavolino, come un Cluedo seriale, è fin troppo telefonato nelle intenzioni e nello svolgimento. Una semina di piste e false piste che fruttano la curiosità dello spettatore – 8 episodi per vedere come andrà a finire non bastano: previste seconda e terza stagione – meno il suo coinvolgimento emotivo. E non è un problema di carne al fuoco, nemmeno di confezione – sinuosa, mortifera, ovviamente deluxe – ma di schema: prevedibilissimo, anche quando non si sa dove andrà a parare.

1899 (credits Netflix)
1899 (credits Netflix)
1899 (credits Netflix)

Peccato. Non mancano i personaggi interessanti e il cast - Emily Beecham, Andreas Pietschmann, Aneurin Barnard, per dire – è di prim’ordine. Ma nell’insieme l’operazione è freddina, digitale per usare un aggettivo che qui particolarmente si attaglia. La disinvoltura mitologica avrebbe forse meritato un’architettura concettuale meno soffocata dagli standard della narrazione moderna, troppo psicologizzata, cerebrale, bramosa di spiegazioni. Una narrazione che dell’interiorità sembra conoscere solo la dimensione del trauma. Sarebbe bastato non svelare “Il fascino dell’ignoto che domina tutto”. Lo aveva già detto Omero. Ed era greco anche lui.