Alle 14 e 28 del 12 maggio 2008 la terra del Sichuan cinese cominciava a tremare. Ottavo grado della scala Richter per uno dei terremoti più devastanti di tutti i tempi. Oltre 70mila morti, 350mila feriti, 18mila dispersi. 1428, per la regia di Du Haibin, documenta l'accaduto giusto una decina di giorni dopo.
Troupe leggerissima che si sposta tra macerie, travi, mattoni, pezzi di cartone. E' già ora di ricostruire, subito, senza troppi indugi, ma l'elefantiaca macchina burocratica dello stato/partito comunista cinese non è proprio delle più celeri. Du esplora diverse zone del Sichuan, si avventura tra colline e monti, tra i miseri resti delle case contadine, come nei piccoli centri urbani, villaggi, baracche.  La scelta cade sul doppio registro  del piano ravvicinato (perlopiù mezzi busti e figure intere) e degli sfondi lontani, grazie al naturale aiuto che lo scenario ambientale di certa Cina rurale regala alla profondità di campo. Ed escludendo l'artificiale figura di un vagabondo con l'aria da scemo che appare ad ogni differente villaggio inquadrato, l'immagine statizza lo stato d'animo dei terremotati in un quadro d'insieme piuttosto sorprendente.
Sarà per una millenaria tradizione antropologica di riservatezza, sarà per una scelta precisa in fase di montaggio, ma gli intervistati non si disperano granché. La retorica del pianto, quindi, non appartiene a 1428. Semmai si rileva una compostezza di riflessione sull'accaduto soprattutto tra i contadini: l'urgenza di case temporanee per riattivare il tessuto della coltivazione e dell'allevamento, la protesta non tanto vibrata contro le lentezze governative. Così ad emergere non è tanto il disfacimento dei luoghi, che sembra un elemento endogeno, ma la sensazione che il territorio cinese sia di una tale immensità che risulti, soprattutto dopo una tale catastrofe, letteralmente fuori controllo. I banchetti con telefonini si affiancano a carretti che portano pezzi macilenti di maiale in vendita, esponendo una tragica condizione di deperimento delle gerarchie materiali di vita e un neutrale, quanto inaspettato, fatalismo. Tutti vogliono vendere qualcosa, tutti si prodigano a guadagnare per sopravvivere, ma risulta difficile costruire futuri possibili, quando il presente risulta così frammentato e ben poco collettivizzato.