Viene difficile credere che questo sarà il suo ultimo (o penultimo ?) film, che girare gli costa ormai una gran fatica. Pure se parliamo di un uomo di 77 anni. Viene difficile credergli perché Ken Loach appartiene a quella meravigliosa generazione di cineasti (come Woody Allen, De Oliveira, etc…) che invecchiando migliorano. Un po' come il whisky che aveva tenuto banco nel suo precedente lavoro (La parte degli angeli).

Il regista britannico fa sembrare il cinema la cosa più semplice del mondo: nel suo realismo secco e immediato, non c'è quasi mai una scena di troppo, un movimento di macchina inopportuno, una battuta sbagliata, un personaggio fuori luogo. La storia che racconta e gli eroi che ci propina sono da decenni gli stessi, ma sempre trovando una chiave inusuale, ogni volta toccando le corde giuste: la fabbrica, la guerra, il calcio, l'alcol, l'amore e, ora, il ballo.

Sostenuto come al solito dall'ottima sceneggiatura di Paul Laverty, Ken Loach riceve a Cannes l'ennesima ovazione con Jimmy's Hall, un altro impeccabile ed energico ritaglio dalla storia fuori dai libri di storia: la ribalta la merita stavolta James Gralton (Barry Ward), l'unico uomo irlandese ad essere stato espulso dal proprio paese. Siamo negli anni '20 e Gralton è un giovane e carismatico attivista politico, costretto una prima volta ad emigrare dall'Irlanda negli Stati Uniti. Tornato in patria dieci anni dopo e forte dell'esperienza col jazz vissuta in terra americana, Gralton decide di ripetere il felice esperimento del Music Hall, una sala da ballo e un luogo di ritrovo in cui poter studiare (varie discipline: dalla letteratura alla boxe, passando dal disegno), confrontarsi ed emanciparsi da un destino di sottomissione e di ignoranza. Il progetto trova entusiastica adesione da parte degli uomini e delle donne del villaggio, ma anche la forte ostilità delle istituzioni locali, in primis dei rappresentanti della Chiesa, timorosi di perdere il proprio potere d'influenza (anche se al suo interno le posizioni sono più sfumate di quanto non sembri).Il conflitto non tarderà ad esplodere, riproponendo una delle classiche contrapposizioni del cinema di Loach, comunismo vs. religione, che sta ovviamente per libertà vs. autorità. E torna anche la questione irlandese, con buona pace dei suoi connazionali (gli inglesi non gliel'hanno mai perdonata).

Con il consueto movimento narrativo a fisarmonica (dal focus principale ad altri temi sotterranei, e ritorno), il registro ora drammatico e ora ironico (mai sbilanciato in un senso o nell'altro), la capacità di perorare la propria causa passando sempre dal vissuto umano, Loach parla netto e parla chiaro, e ne ha per tutti.

Parla soprattutto agli spettatori del presente ricordando loro che la vita non è in delega a politici, banche o venditori di pentole, ma è affar nostro ed è ora di andarcela a riprendere: Shall We Dance?