Non c'è maledizione peggiore che rimanere vivi in mezzo a un mucchio di cadaveri.
Lo sa bene Aaron, risparmiato dal naufragio che ha inghiottito invece il fratello Michael e i suoi amici. Ad Aberdeenshire, piccolo villaggio di pescatori nel nord della Scozia, non glielo perdonano. Non lo liberano dalla colpa di essere sopravvissuto, lui solo, mentre tutti gli altri – figli e fidanzati – non torneranno più. Che cosa è accaduto? Davvero Aaron non ha potuto far nulla per salvarli? E poi questo ragazzo strano, introverso, scontroso, sicuri non sia latore di sciagure? Buon nome non mente – Aronne in ebraico significa "portatore di martiri" – ma qui a raccontarsi bugie sono tutti, incapaci di accettare una tragedia che resta incomprensibile (Aaron non ricorda) e invisibile (i corpi non vengono ritrovati). Il miracolato, per primo, è convinto di poter strappare il fratello al mostro degli abissi che l'ha preso e di cui racconta un'antica leggenda.
Mito, psiche e morte nel promettente esordio di Paul Wright. Sommesso come un requiem e disturbante come una storia di fantasmi, Il superstite radiografa una lacerante elaborazione del lutto attraverso i tòpoi di una favola per adulti.
Diviso tra una prima parte spettrale (la migliore) e una seconda più aderente ai risvolti psicologici, il film sbriciola la linearità narrativa per calarci in una dimensione quasi interamente cognitiva e sensoriale, in cui l'utilizzo di diversi registri enunciativi (la camera digitale, il beta dei cinegiornali, i filmini amatoriali) serve a de-territorializzare l'immagine e a disorientare l'esperienza di visione. Lo smarrimento dei personaggi di fronte alla perdita dei propri cari si traduce così in autentica e perturbante vertigine percettiva, con lo spettatore costretto a sbattere contro lo stesso inaccettabile muro di dolore del protagonista.
Notevoli gli interpreti (a iniziare dal giovane George Mackay) e impressionanti i cieli plumbei fotografati da Kracun. Questo superstite non passa invano.