Una fedele adesione al nucleo narrativo del libro – il parricidio, la messa in accusa del figlio maggiore, la posizione morale dei fratelli - che diventa altro grazie a un gesto audace e moderno di assimilazione personale. I Karamazov di Zelenka vivono di vita propria.
Là dove il genio di Dostoevskij affidava alla struttura polifonica del romanzo l'insostenibile orrore di un mondo senza Dio (I fratelli Karamazov è del 1880: due anni più tardi, ne La gaia scienza, Nietzsche avrebbe teorizzato la “morte di Dio”), qui, nel film, a imporsi sulle passioni e gli abissi dei personaggi è una riflessione sul ruolo dell'intellettuale e sul potere ambiguo dell'Arte.
Non è un caso se da questo adattamento – ispirato all'allestimento teatrale anni '70 di Evald Schorm, con tutte le diversioni drammaturgiche degli anni a seguire - manca proprio il capitolo de Il grande inquisitore, ovvero il suo momento più alto e rappresentativo. L'omissione ha il valore di un vero e proprio u-turn semiotico, del teatro e del cinema rispetto all'originale letterario.
L'enorme acciaieria alla periferia di Cracovia, dove una compagnia praghese prova la piéce I Karamazov, funziona da palcoscenico allargato per la pantomima dell'arte, degli uomini e della vita. Si tratta di un'affascinante matrioska testuale in cui il principio della myse en abime viene triplicato: il romanzo di Dostoevskij nella pièce di Evald Schorm, la piéce nel film, il film nella vita degli attori, gli stessi che da 12 anni portano in turnè il testo teatrale.
Senza contare il diaframma all'interno della stessa finzione: nella fonderia-teatro si aggira un operaio che sta vivendo un dramma familiare e viene profondamente turbato dalla recita, considerate le tragiche risonanze tra il mondo karamazoviano e il suo.
E poi la scelta della fabbrica, di questa fabbrica: la più grande mai fatta costruire da Stalin, per rimpiazzare intellettuali e teatri con operai e industrie. La sostituzione è simbolica, il monito reale: l'arte è potente. Saprà essere anche responsabile?