“Tonight, tonight, there’s only you tonight” (Questa notte, questa notte, ci sei solo tu questa notte). È solo uno dei tanti versi che hanno reso West Side Story di Jerome Robbins e Robert Wise un successo planetario. Dieci Oscar, tanti record, una colonna sonora unica firmata da Leonard Bernstein, e adesso il remake girato addirittura da Steven Spielberg. Ma proviamo a confrontare i due film, shot for shot, sequenza per sequenza.

Spielberg ha utilizzato più campi lunghi rispetto a Robbins e Wise. Mentre nel 1961 la macchina da presa era più vicina ai protagonisti, qui sembra esserci più respiro. L’uso del grandangolo è più sinuoso, calibrato. Durante i balli per le strade, Spielberg filma dal basso verso l’alto, cerca di inquadrare l’orizzonte, di andare oltre ciò che succede in primo piano. Nella scena della chiesa, lo spettatore ha una chiara panoramica della navata. Il pubblico viene per un attimo accecato dalla luce che filtra dalla vetrata. Poi Maria s’inginocchia, Tony resta in piedi. E solo a quel punto si raggiunge lo scambio di sguardi dell’originale. Ma la prospettiva è invertita. Questa è una nuova visione introdotta da Spielberg. Dalle immagini che abbiamo visto sembra cambiato l’asse. Adesso la simmetria delle inquadrature si sposta da sinistra verso destra. E poi i colori: accesi, luminosi. Nei movimenti di massa, pieni di comparse, è impossibile non notare le tonalità sgargianti e una regia decisamente più dinamica, con carrelli anche molto veloci.

Pensiamo all’incontro-scontro tra le due gang contrapposte: i Jets e gli Sharks. La visuale è dall’alto, le loro ombre si allungano sull’asfalto, si intersecano, si accarezzano prima che volino pugni e coltellate. Per Robbins e Wise l’immagine era quasi statica, si aspettava l’arrivo faccia a faccia tra le due bande rivali. Ma questo è solo un anticipo. La verità la scopriremo il 10 dicembre, quando West Side Story verrà distribuito nelle sale dalla Disney. Tony è Ansel Elgort, mentre Maria è Rachel Zegler. Rivive il mito di Romeo e Giulietta nel “ghetto” portoricano più famoso di sempre.

Noi abbiamo intervistato Rita Moreno, che nel 1961 vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista interpretando Anita.

Da West Side Story a West Side Story, questa volta sarà Valentina. Anita era la fidanzata di Bernardo, il leader degli Sharks (George Chakiris), in più era la sorella e confidente di Maria. Rita Moreno è tra i quindici artisti di sempre ad essere entrata nel club ristretto degli EGOT, ovvero ha vinto l’Emmy, il Grammy, l’Oscar e il Tony Award. Il suo talento travalica lo schermo e conquista il palcoscenico. Ha recitato al fianco di Marlon Brando in La notte del giorno dopo di Hubert Cornfield, è stata diretta da Irving Lerner nel bellissimo Grido di battaglia. Ma, per chi scrive, resta indimenticabile nella serie HBO Oz, dove era Sorella Peter Marie. Si trattava forse di uno dei ritratti carcerari più duri della televisione. Non si usciva mai all’esterno, si restava rinchiusi all’interno della prigione. Moreno era una suora che faceva anche la psichiatra.

Rita Moreno in 20th Century Studios’ WEST SIDE STORY.

Partirei da un elemento peculiare: Steven Spielberg ha organizzato un panel all’Università di Porto Rico, per conoscere le opinioni sulla versione del 1961 e le aspettative su quella nuova. Che cosa ne pensa?

Non tutti sono stati d’accordo con la visione dei portoricani fornita nel 1961. Era troppo focalizzata sulle gang e sulla criminalità. Non andava a fondo nella nostra cultura. Già solo l’idea che tutti avessero lo stesso colore della pelle per me è assurda. Odiavo il mio trucco, che era troppo scuro. In una sequenza George Chakiris, che interpretava Bernardo, era così “nero” che sembrava che qualcuno lo avesse immerso nel fango. A fare da contrasto c’erano i nostri denti bianchissimi, e poi gli occhi. I portoricani hanno radici e provenienze diverse. La pelle può essere marrone, ma anche bianca come la neve. Francesi, olandesi e spagnoli hanno saccheggiato l’isola nei secoli passati, spogliandola, portando via tutto ciò che c’era di prezioso. È una vicenda molto triste.

Il West Side Story di Spielberg è diverso. Il cast riflette questo mix di cui lei parla.

Per me significa tutto. È così rispettoso, amorevole. Indovina un po’? Maria questa volta è latinoamericana. Le presta il volto Rachel Zegler, che ha una splendida voce. Quando si è unita al progetto, aveva diciassette anni e ne ha compiuti diciotto proprio durante le riprese. Adesso è già al terzo film.

Lei invece come è stata coinvolta nel film?

A propormi è stato lo sceneggiatore Tony Kushner, che ha collaborato spesso con Spielberg. Non sapevo che fosse un mio grande fan. A quel punto mi ha chiamato Steven. Gli ho risposto: “Di solito non faccio cameo”. E lui: “Non è un cameo, è una parte vera. Si chiama Valentina”, che secondo me è un nome bellissimo. Così mi ha mandato il copione. Adoro questa storia, perché penso che finalmente Spielberg sia andato più in profondità. L’originale aveva toni più leggeri, era una commedia. Per molti il primo West Side Story è iconico. Bene, aspetto che vedano questo.

Che cosa ci può dire di Valentina?

È meravigliosa. Possiede ancora il negozio di caramelle, come nel primo West Side Story. Kushner dice che è il cuore del film. È così matura, amorevole, calorosa. Lascia il segno, e io sono orgogliosa di vestire i suoi panni. Poi con Kushner si è creato un bel rapporto. È molto dolce, adorabile, a tratti commovente. Mi sono sentita un po’ come se fossi sua “zia”.

Com’è stato essere diretti da Steven Spielberg?

È uno dei più grandi registi di sempre. Si nutre di cinema, trasuda cinema. Certe inquadrature mi hanno fatto venire la pelle d’oca. Lui ti parla, ogni momento. Ti spiega come recitare, ti invita a contribuire, ad aggiungere qualcosa. Mi ha aiutato a gestire i momenti più emotivi. Mi diceva sempre: “Se devi mostrare un sentimento, non dare tutto subito, non metterci subito il 100%. Lascialo crescere. Parti da 20, poi sali a 40. Tienilo dentro”. Mi ha aiutato. Nel 1961 ero Anita, una donna vivace, ma Valentina è completamente diversa. Lei è adulta, mentre Anita era una ragazza. Penso che sia uno dei migliori personaggi che io abbia mai incarnato.

Questa volta a interpretare Anita è Ariana DeBose. Pensa che ci siano delle profonde differenze rispetto alla sua Anita?

Penso che lei sia una ballerina favolosa, decisamente migliore di me.

Ariana DeBose in 20th Century Studios’ WEST SIDE STORY.

La sua canzone America veniva eseguita sui tetti, mentre invece qui siamo nelle strade.

L’idea è pazzesca. Senza paura Spielberg ha scelto di stravolgere un numero epico. Non vedo l’ora che possiate assistere al risultato. I set in cui abbiamo ricostruito il ghetto erano enormi, belli come quelli del 1961. Mi sono venute le lacrime agli occhi, mi è sembrato di tornare indietro nel tempo. La prima sequenza che ho dovuto girare era proprio tra quelle vie. Non stavamo rispettando proprio la sceneggiatura, stavamo un po’ improvvisando. Sono rimasta colpita dal lavoro della scenografia, dalla capacità di immersione che è stata ricreata. Merito di Adam Stockhausen, il nostro scenografo appunto, che ci ha messo l’anima.

Come è arrivata a essere anche produttrice esecutiva e che tipo di suggerimenti ha dato?

È stata un’idea di Spielberg. Gli è venuta proprio mentre realizzavamo America. Stavano registrando il numero Dance at the Gym, che è un mambo, e ho fatto notare che il tempo era sbagliato, era troppo veloce. Serviva più armonia, i ballerini non potevano muoversi con tutta quella fretta. Alla fine mi hanno ascoltato, e hanno deciso di rallentare. E così è iniziata l’avventura.

Ho anche sentito che ha dato dei consigli agli attori che interpretavano la banda degli Sharks. Vuole parlarcene?

Sono diventata una regista per dieci minuti… Nell’ultima parte del film, c’è una scena in cui gli Sharks devono scappare. Da ogni direzione arrivano macchine della polizia. Li vogliono arrestare e mandare in prigione. Steven era impegnato, così mi sono presa la libertà di confrontarmi con gli attori. Sapevo che a Spielberg avrebbe fatto piacere. Letteralmente ho spiegato: “Sembra che voi stiate dormendo”. Mi ero calata nei panni del regista non simpatico. “Dovete essere terrorizzati, la polizia potrebbe prendervi e portarvi via tutto ciò che avete”. Avevo una piccola parte in quella scena con loro, e ho continuato: “Voglio vedere il vostro sgomento, dovete essere spaventati a morte, come la mia Valentina”. A quel punto ho improvvisato, e ho mostrato loro come bisognava fare. L’obiettivo era far capire che dovevano scavare in loro stessi, per far uscire quell’emozione che avevano nel cuore. Mi hanno seguita, ed è stato fantastico, anche se non sono Steven Spielberg…

Ha aggiunto anche altre caratteristiche tipiche della cultura latinoamericana?

Certo, ho spiegato molte cose ai “bambini”. (Non preoccupatevi, chiamo così tutto il corpo di ballo). Ma in realtà a istruirli sono stati Spielberg e Kushner. Ogni settimana tutti, anche chi faceva parte della banda rivale dei Jets, riceveva una lezione sulla società portoricana. Ho condiviso con loro le mie esperienze, Kushner sosteneva che era molto importante, perché erano sincere e autentiche. Ogni volta che i “bambini” venivano alle prove, se non ballavano, imparavano i passi o cantavano, ascoltavano qualcuno che raccontasse loro che cosa significava essere ispanici, negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta.

Quali sono i ricordi più vividi che ha del primo film del 1961?

È stato tutto bellissimo, sapevamo di star facendo qualcosa di speciale. Girare Romeo e Giulietta in un ghetto ispanico era un’idea grandiosa, anche se in realtà eravamo convinti che non avrebbe incassato tanti soldi. Stavo tornando nel camerino con Chakiris, eravamo negli studios della Metro Goldwyn Mayer, e gli ho detto: “Forse non l’hai capito, ma devi prepararti al fatto che questo film non avrà un grande successo. Pensa solo un attimo ai costumi, vedi qualche lustrino?”. Nei musical tradizionali i vestiti erano sempre sgargianti, nel nostro caso invece era tutto il contrario. I colori erano cupi, gli attori cantavano con voci più vicine all’opera che al musical.

Come ha avuto la parte?

Ho lavorato sodo, ho fatto tanti provini. Tutte le ragazze con i capelli scuri in California ci stavano provando. Alla fine ci sono riuscita, ero raggiante. La cosa incredibile è che non ballavo da anni, e non sapevo se sarei stata all’altezza.

Rita Moreno in West Side Story (1961)

E poi è arrivato l’Oscar.

Esatto, e l’ho ritirato facendo uno dei discorsi più brevi della storia. Qualcuno mi ha detto che lo ha cronometrato, ed è durato quindici secondi… Poi mi ricordo di mia madre. Alla cerimonia era seduta dietro di me. Quando ha sentito il mio nome, mi ha afferrata ammonendomi di non correre sul palco, perché non è dignitoso. Non l’ho fatto. Ho camminato un po’ velocemente, e gli applausi non si sono mai fermati.

È vero che dopo non ha lavorato per sette anni?

È sconvolgente. Ricevevo proposte solo per altre storie incentrate sulle gang, ma di certo non all’altezza di West Side Story. Avevo ricevuto l’Oscar, il Golden Globe, e non riuscivo a trovare lavoro. Avevo il cuore a pezzi.

Perché il personaggio di Anita è così importante per la cultura latina?

Ha una sua dignità, una forza, ha coscienza di se stessa. È diventata il mio modello. All’epoca non esistevano personaggi così. A chi doveva affidarsi una giovane portoricana in quegli anni? A nessuno. Ho preso come riferimento Elizabeth Taylor, ma non aveva senso. Anita è una donna che conosce il suo posto nella vita, e non è dove vogliono metterla gli altri. Volevo avere quella tenacia, con ogni fibra del mio cuore.

Oggi che cosa significa West Side Story per lei?

Porta una nuova consapevolezza di una comunità che non esisteva nella mente delle persone: quella portoricana. Eravamo invisibili, per tanta gente. Per questo penso che il film sia stato necessario non solo da un punto di vista cinematografico, ma anche per sensibilizzare la società.