"Dove porta questa strada?".
"Non è una strada, è una direzione"."Direzione verso cosa?"."Verso il nulla".
Se a presiedere la giuria di Cannes 63. ci fosse stato David Lynch la Palma d'Oro si sarebbe assegnata già stasera. Perché My Joy, l'opera prima di Sergei Loznitsa - documentarista bielorusso, cresciuto in Ucraina, già autore del notevole Landscape - è davvero un film "senza uscita", diretto verso il nowhere dell'umanità: lungo una strada della provincia russa, il camionista Georgy (Viktor Nemets) viene fermato da un agente per un controllo, poi è "costretto" a dare un passaggio ad un veterano della seconda guerra mondiale che, in cambio, gli racconta la storia del suo rientro dal fronte tedesco. Scomparso l'uomo, Georgy si ritrova bloccato in un ingorgo (di godardiana memoria): qui incontra una baby prostituta, che lo conduce verso un villaggio. Abbandonato anche da lei, si rimette in marcia, ma finisce per perdersi nelle stradine della notte. E il camion si rompe. Un paio di loschi viandanti lo invitano a cenare attorno al fuoco, ma il pasto si conclude male. E qui inizia il film. Che in qualche modo "riparte", tornando indietro nel tempo (mostrando il brutale omicidio di un insegnante, vedovo e padre di un bambino, da parte di due soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale), per presentarci la casa dove ritroveremo, quasi irriconoscibile, sperduto e muto, il protagonista. E' nel saper condurre con estrema cautela e altrettanto stile il successivo "ricircolo" il merito maggiore di Loznitsa, che inquadra nella ciclicità degli eventi e nella definizione burocatrica dell'uomo (tutto, alla fine, prende il via e si riduce alla richiesta di esibire un documento...) la gabbia da cui è impossibile fuggire. La chiave si nasconde dietro un nichilismo disperato, come suggerisce l'agghiacciante finale: ma arrivati a tanto, quello che rimane davanti è solamente una strada - pardon, una direzione - inghiottita dalle tenebre.
Finora, il film davvero degno di nota passato in Concorso.