Una volta Anthony Hopkins aveva gli occhi di ghiaccio, e lo chiamavano Hannibal Lecter. Adesso ha i capelli bianchi e spreca il suo talento dietro ad affascinati donzelle in pericolo. Ma il ruolo del cowboy moderno non gli si addice e la platea rimpiange il suo sguardo appuntito, pieno di quella glaciale ambiguità che lo ha consacrato. Hopkins indossa la maschera del giustiziere e il povero Ray Liotta può soltanto tremare.

Blackway (Liotta) è un ex poliziotto votato al malaffare. Un tempo era vice sceriffo, ma adesso riconosce solo l’autorità della violenza. Terrorizza i cittadini di una piccola comunità in mezzo alla foresta e anche le forze dell’ordine hanno paura di lui. Se lo cercate, alloggia in fondo alla superstrada, vicino a un motel, dove gestisce il suo traffico di droga e di esseri umani. Ma un giorno alza troppo il tiro. Molesta la ragazza sbagliata, aggredendola in un parcheggio, senza pensare alle conseguenze. Lei si rivolge a un taglialegna d’eccezione, un Anthony Hopkins molto arrabbiato, che ha di suo un vecchio conto da regolare.

Daniel Alfredson è il regista svedese che ha girato gli ultimi due capitoli della Trilogia Millenium. Erano film cupi, votati alla violenza e alla perversione, tratti dal successo letterario di Stieg Larsson. Poi ha conosciuto Anthony Hopkins e lo ha diretto ne Il caso Freddy Heineken, il famoso sequestro del magnate della birra ad Amsterdam. Il sodalizio tra i due ha funzionato, e il secondo film non ha tardato ad arrivare.

Go With Me è un western moderno dai toni dark. Sfrutta la nebbia e l’oscurità della foresta per riproporre atmosfere da thriller, ma stenta a convincere. Non sa se essere un semi -  horror di provincia o una sfida all’O.K. Corral. L’eroe di turno è il classico uomo senza paura, con un passato torbido da nascondere. Tiene un fucile nel capanno degli attrezzi e lo spaccia per una canna da pesca. Il buon Hopkins avrà anche una certa età, ma spara come un diavolo. E incarna il perfetto clichè del western anni Sessanta. Peccato che una volta i duelli si girassero su terreni sabbiosi, e dietro la macchina da presa, almeno per il cinema nostrano, ci fosse un certo Sergio Leone.

Il risultato qui è un film che non trova una propria identità. Si nasconde dietro un andamento classico e non si azzarda minimamente a stupire con qualche colpo di scena. Dopo dieci minuti il finale è già chiaro, e la storia si snoda prevedibile verso epilogo. Liotta cerca di rievocare i tempi di Quei bravi ragazzi, quando faceva davvero paura. Adesso non spaventa più, e i suoi sguardi inviperiti non impensieriscono neanche un bambino.

Go With Me è un film che non sa vivere i suoi anni. Ripropone generi passati e cerca scampo nella bravura delle sue star, che però non hanno voglia di brillare. Chi osa può strappare qualche applauso, ma per chi non si schiera, anche le porte dell’Inferno restano serrate.