Il talento di Steve McQueen (Hunger, Shame) sposa stavolta una produzione mainstream e un racconto canonico, ispirato al libro di memorie di Solomon Northup. Afroamericano dell'800, nato libero, rapito e messo in catene da una gang di schiavisti, il Salomon di McQueen (ottimo Chiwetel Ejiofor) è il ballerino di una danza di frusta e corpi macerati, sguardi imploranti e lacrime a comando.
Film rabbioso e manicheo, dove razzisti ributtanti (Fassbender e Dano) guadagnano spazio pur avendo la profondità di un cartonato, e latifondisti non violenti e assai più pericolosi (come Cumberbatch) abbandonano troppo presto la scena.
Interessa la tensione nervosa, il disagio fisico, l'abominio dei carnefici. Interessa Salomon costretto dal padrone a frustare a morte una giovane schiava. Per alcuni pornografia della tortura; a nostro avviso una delle sequenze migliori. Un'altra è la compravendita di schiavi gestita da un rivoltante Giamatti. Schierati in fila, nudi dalla testa ai piedi, valutati e prezzati in base a età, sesso e condizioni fisiche, è una scena doppiamente epifanica: sconcertante nel denunciare l'infamia economica e giuridica dello schiavismo (la conversione ex lege di uomini in merce); intollerabile perché si regge su una maledetta ambiguità scopica, per cui lo spettatore è insieme soggetto mortificante e oggetto mortificato della visione.
Guardare ed essere guardati, McQueen manipola il pubblico come vuole: qui sta la sua grandezza e insieme il suo difetto. Come i personaggi del film, anche noi spettatori stiamo nella storia per effetto di una decisione arbitraria. 12 anni schiavo è in questo disincantatamente (post)moderno. Assai più disinvolto di altri nell'associare lo schiavo alla proprietà privata (che è un furto vero e proprio qui) e ai codicilli del diritto.
Peccato che l'ampiezza d'approccio si risolva a parole e finisca a tarallucci e vino, vedi trionfale entrata in scena di Brad Pitt (produttore). A Hollywood se ne fregano di Brecht: fortunato quel cinema che ha ancora bisogno di eroi.