Per la prima volta a Venezia il Leone d'Oro alla carriera va a un documentarista, anzi, “il” documentarista Frederick Wiseman, che verrà premiato oggi pomeriggio in Sala Grande. Dall'opera prima Titicut Follies (1967) all'ultimo National Gallery (2014), il regista americano è l'epitome stessa del cinema del reale: “Non c'è motivo per cui un documentario non possa essere allegro, triste, tragico come un film o un romanzo, ho sempre cercato di fare film con una struttura drammatica, il modello per me  è la fiction letteraria”. “Ho cominciato a leggere quando avevo 5 anni, e leggo ancora tantissimo. Cerco – prosegue Wiseman - di trasferire una parte di quel che leggo nei miei film. Cerco di fare film in cui fornisco informazioni, non credo che la mia visione delle cose possa cambiare il mondo, ma voglio fare film che riflettono l'ambiguità del mondo”.
E torna sui suoi esordi, nella Parigi di metà anni '50, in 8 e super 8: “Ero iscritto a Legge e la odiavo, c'era la guerra di Corea… Non mi è mai piaciuta Legge , per tre anni ho letto solo romanzi, poi mi sono deciso a fare qualcosa che mi piacesse”. Con un imperativo: “Stavo a Boston, mentre gli altri documentaristi erano a New York: sono un solitario, vado per la mia strada. Ancora oggi: non faccio parte di un gruppo, non so bene che accada all'esterno”. Ma c'è stata evoluzione nel settore? “Non c'è differenza tra ieri e oggi per i doc, solo l'attrezzatura: oggi ci sono telecamere e montaggio digitale, ma a parte questo è la stessa cosa”.Dal punto di vista produttivo e distributivo, “produco io i miei lavori perché i soldi non bastano mai e li distribuisco perché sono rimasto fregato così tanto dal distributore del mio primo film: con un margine del 100% non ho nulla da perdere, è più facile. Dalla mia esperienza, con i distributori si viene sempre fregati, per dirlo con termini delicati”. Ancora sui colleghi: “Quando i documentaristi si riuniscono parlano solo di odi e gelosie rispetto ad altri che fanno più soldi, è l'argomento principale di conversazione”. Sul metodo di lavoro: “Ci si deve isolare per pensare alle esperienze fatte nei luoghi da riprodurre e si cerca la ratio, il significato di quel che si è fatto. Nel montaggio, poi, si deve analizzare il materiale e chiedersi perché le persone hanno usato quei termini, hanno chiesto una sigaretta: l'80% di un doc non ha niente a che fare con la tecnica del fare film, ma con la descrizione dei comportamenti. Un film emerge quando la parte tecnica incontra la comprensione del comportamento. Non mi piace fare interviste né l'oversound, perché credo interferiscano nella relazione tra spettatore ed esperienza”.
Stanco di sentirsi definire il più grande documentarista al mondo? “Non posso pensare a come esser stanco di sentirlo dire, ma non me ne occupo poi tanto. Mi piace fare film drammatici, complicati, che si occupano di aspetti sottili e complessi del comportamento umano. Se film e doc funzionano, non c'è distinzione: devono funzionare a livello narrativo e astratto. Detesto i doc a scopo educativo”. Sulla situazione mondiale Wiseman esprime preoccupazione: “Un adulto con minima intelligenza non può non essere preoccupato. Non navigo tanto, ma leggo i giornali: sono preoccupato, si cerca di fare qual che si può”.
L'84enne Wiseman ha in cantiere ben due progetti: “Ho finito di girare un film su un quartiere di Queens a New York, in cui in 40 edifici si parlano 160 lingue diverse: un po' come vivere a fine 19° secolo a  NY, ma è il nuovo volto dell'America, e quel che accade in altre città del mondo. Ma la gente crede che solo Obama sia il nuovo volto dell'America”. E non finisce qui: “Vorrei fare dal mio esordio Titicut Follies un balletto: sto lavorando con un coreografo, ho accettato di farlo solo essendone il primo ballerino…”.