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Solveig Dommartin in Until the End of the World - Director's Cut by Wim Wenders © 1994 Road Movies – Argos Films Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
«In principio era la parola. E se alla fine rimanesse solo l’immagine?». La frase che Eugene, lo scrittore interpretato da Sam Neill, pronuncia in Fino alla fine del mondo continua ad arrivare fino a noi con una limpidezza quasi imbarazzante. Siamo ancora lì, sospesi tra parole e immagini, ma radicalmente cambiati. Quando il film esce nelle sale, nel 1991, Wim Wenders prova a misurarsi con le grandi fratture di fine secolo: la caduta del Muro, la fine della Guerra fredda, l’illusione di un nuovo ordine globale, l’irrompere dell’elettronica di consumo nella vita quotidiana. Il film che il pubblico incontra, però, è una versione mutilata. Dal primo montaggio di circa venti ore si passa, per volontà dei produttori, a edizioni accorciate: 179 minuti per l’Europa, 158 per il mercato statunitense. Wenders stesso le definirà, non senza amarezza, una specie di “Reader’s Digest” del film. Dal 9 dicembre, grazie a CG Entertainment, Fino alla fine del mondo può finalmente essere visto nelle sale italiane nella sua forma compiuta: la Director’s Cut restaurata in 4K, supervisionata dalla Wim Wenders Stiftung e tratta dal montaggio di quasi cinque ore completato dal regista nel 1994. Non è un semplice restauro, ma il ritorno del progetto alla propria temperatura originaria.
Che cos’era Fino alla fine del mondo
L’idea nasce alla fine degli anni Settanta, quando Wenders scopre l’Australia e la cultura aborigena. In quel paesaggio remoto immagina un’estrema riserva del mondo: un luogo in cui, alla vigilia della fine, qualcuno tenti di “salvare” le immagini del pianeta. Quando il progetto prende concretamente forma, dopo il successo di Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino, assume proporzioni eccezionali: un budget intorno ai venti e più milioni di dollari, riprese in undici Paesi e in una costellazione di città, un girato in Super 35mm che si propone di essere una mappa del mondo alla soglia del Duemila.


Solveig Dommartin and William Hurt in Until the End of the World -
Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Collocato tra Il cielo sopra Berlino (1987) e Lisbon Story (1994), Fino alla fine del mondo rappresenta insieme l’apice e la crisi del Wenders “on the road”. Riprende infatti il motivo del viaggio come ricerca identitaria e spirituale – da Alice nelle città a Nel corso del tempo, fino a Paris, Texas – ma lo innesta in una fantascienza quotidiana, dove il movimento non è più soltanto geografico, bensì attraversato da nuove tecnologie dell’immagine, della comunicazione, del controllo.


Solveig Dommartin and William Hurt in Until the End of the World -
Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
La trama si dispone su più livelli. Sullo sfondo c’è la minaccia di un satellite nucleare indiano fuori controllo che rischia di precipitare sulla Terra alla fine del 1999: una fine del mondo annunciata, che alimenta il panico geopolitico e la sensazione diffusa di precarietà. In primo piano si muove una triangolazione sentimentale: Claire, interpretata da Solveig Dommartin, donna irrequieta e fagocitata dal proprio nomadismo esistenziale; Sam Farber, l’uomo misterioso inseguito da mezza Europa (William Hurt); e Eugene, lo scrittore che racconta la storia in voice over e forse la sta scrivendo mentre noi la vediamo. Il motore segreto del racconto è l’invenzione del dottor Farber, padre di Sam (interpretato da Max von Sydow): un dispositivo capace di registrare le esperienze visive dei vedenti e trasferirle nel cervello dei non vedenti, nato per permettere alla moglie cieca, il personaggio di Jeanne Moreau, di “vedere” almeno una volta i ricordi della propria vita. La macchina che dovrebbe guarire, o almeno consolare, finirà per scoperchiare qualcosa di più profondo: il rapporto patologico tra l’uomo contemporaneo e le immagini che produce.
Un film-cerniera nella traiettoria di Wenders
Fino alla fine del mondo è anche una cerniera interna alla filmografia del regista. Nei documentari Tokyo-Ga e Appunti di viaggio su moda e città, Wenders aveva già interrogato il modo in cui la televisione, il video, la pubblicità ridisegnano lo spazio urbano e la percezione del reale.


Sam Neill, Chick Ortega and Rüdiger Vogler
in Until the End of the World - Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Qui quello stesso discorso non si limita più all’osservazione saggistica, ma viene travasato nella forma del racconto. Il road movie diventa una forma-laboratorio per pensare il passaggio dall’epoca della parola-narrazione a quella dell’immagine-flusso. Eugene incarna la forma antica del racconto: scrive, annota, ordina in una sequenza di frasi e di capitoli quell’eccesso di mondo che gli scorre davanti. Il dispositivo del padre, invece, è il simbolo della nuova condizione iconica: non c’è più bisogno di descrivere, basta registrare. Non c’è più bisogno di ricordare, basta rivedere. E se da una parte la parola dà forma e seleziona, dall’altra l’immagine accumula e replica. Due configurazioni del mondo, la cui giuntura è nella frase evangelica rovesciata: «Se alla fine rimanesse solo l’immagine?»
Atlante del pianeta a fine Novecento
Da un punto di vista visivo, il film si offre come un vero e proprio atlante del pianeta a fine Novecento. La fotografia di Robby Müller tratta città e paesaggi come se dovessero sopravvivere alla fine del mondo: Berlino, Parigi, Mosca, Tokyo sono colte nella loro instabilità, nel loro passaggio dall’industrializzazione pesante all’era dei neon, dei monitor, delle telecamere. Nella lunga prima parte dominano le luci urbane, gli interni d’albergo, le notti al neon: c’è qualcosa del noir, qualcosa del videoclip, qualcosa del diario di viaggio. Non sono semplici cartoline, ma ambienti morali, stati d’animo collettivi in cui i personaggi sembrano costantemente in ritardo o fuori posto.


William Hurt and Solveig Dommartin
in Until the End of the World - Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Quando il racconto approda nell’Outback australiano, il ritmo si dilata. I campi lunghi e gli orizzonti desertici sostituiscono i corridoi e i tunnel. Il continente sembra diventare una grande superficie fragile su cui le immagini vengono registrate prima della catastrofe, un enorme hard disk geologico. In questo scenario si inseriscono i segmenti onirici, realizzati all’epoca con una pionieristica alta definizione. Quelle immagini di sogno, pixellate, graficamente alterate, spezzano il continuum fotografico del film e introducono un livello altro: una pittura elettronica, dove la memoria non è più un’immagine riconoscibile ma un pattern di luce. Il restauro in 4K restituisce oggi questa componente sperimentale con una nitidezza che rende ancora più evidente l’intuizione del regista: il sogno non è più l’inconscio che chiede di essere interpretato ma un dato da archiviare.


Solveig Dommartin, William Hurt, Lauren Graham and Lois Chiles
in Until the End of the World - Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
A tessere il tutto è una colonna sonora straordinaria, una specie di radio globale sintonizzata sull’attesa dell’apocalisse. U2, R.E.M., Talking Heads, Lou Reed, Nick Cave, Depeche Mode, Patti Smith: a loro Wenders chiede di immaginare come avrebbero suonato nel 1999. Ne nasce un controcanto pop alla deriva metafisica delle immagini.
Il grande “troppo” wendersiano
Sin dalla sua uscita, Fino alla fine del mondo è percepito come il grande “troppo” di Wenders: troppo lungo, troppo costoso, troppo ambizioso, troppo avanti. Girato in undici Paesi e concepito come “road movie definitivo”, viene brutalmente riportato a misure considerate più “programmabili” dalle esigenze industriali. Il risultato, negli anni Novanta, è un fallimento. Il film viene accolto freddamente, soprattutto negli Stati Uniti, dove molti lo giudicano incoerente, sfilacciato, indeciso tra spy-story e melodramma, tra love story e fantascienza apocalittica. Quell’impressione di confusione era fondata, ma più che sul progetto, sul compromesso imposto.


Wenders non si rassegna. Mantiene il controllo del negativo, rifiuta di trasformare la versione accorciata in una pietra tombale sul film e continua a lavorare al montaggio. Negli anni Novanta circola un primo montaggio in tre parti, proiettato in cineteche e musei, che comincia a far intravedere l’opera in un’altra luce. Solo nel nuovo secolo la Director’s Cut di 287 minuti viene restaurata, prima in alta definizione, poi in 4K, e riconosciuta come edizione di riferimento. In questa forma, Fino alla fine del mondo rivela la propria natura di romanzo-mondo più che di lungometraggio espanso.
Durata, struttura, respiro
La differenza tra la versione breve e la Director’s Cut non è una semplice aggiunta di scene, ma una diversa architettura. Là dove il montaggio del 1991 proponeva una traiettoria spezzata – un prologo errante, un passaggio brusco all’Australia, un finale visionario condensato – la versione integrale si dispone come un percorso in tre movimenti. Il primo abbraccia l’Europa e l’Asia alla vigilia della catastrofe, il secondo attraversa l’America e conduce al deserto australiano, il terzo si chiude nel laboratorio, nella discesa all’interno dei sogni registrati. Il passaggio da un blocco all’altro non è più un salto di registro, ma una metamorfosi graduale: da road movie a esperimento mentale claustrofobico.


Questa nuova respirazione permette anche di rimettere al proprio posto gli elementi narrativi che nella versione corta apparivano casuali. La rapina iniziale, il traffico impazzito, la presenza del satellite fuori controllo, la costellazione di agenzie, detective, cacciatori di taglie, non appaiono più come rumore di fondo, ma elementi di un tessuto connettivo. Il mondo che Wenders mostra è già un mondo di sorveglianza globale, in cui ogni movimento lascia una traccia, ogni corpo è localizzabile, ogni transito può essere monitorato. La fantascienza non è un salto nel futuro, ma un leggero slittamento in avanti del presente.
Le vite che invecchiano
La lunga durata restituisce poi ai personaggi una profondità biografica che il montaggio breve poteva solo suggerire. Claire, anzitutto: non è più una semplice musa in fuga, ma una donna di cui vediamo la stanchezza, il matrimonio ferito, il modo in cui la fuga diventa l’unica forma di sopravvivenza possibile a una vita che le appare già implosa.


Solveig Dommartin in Until the End of the World - Director's Cut
by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Eugene smette di essere un narratore laterale e diventa il vero tessitore del film: il suo punto di vista, il suo romanzo interno, la sua gelosia e il suo lento lavoro di elaborazione del lutto amoroso conferiscono altra consistenza a ciò che vediamo. Del resto, Fino alla fine del mondo è anche la storia di uno scrittore che tenta di salvare con le parole chi sta affondando nelle immagini.
Sam Farber, a sua volta, non è più soltanto il misterioso portatore del dispositivo, ma un figlio preso in mezzo tra la colpa e la missione. La progressiva cecità, la fatica fisica del viaggio, il rapporto tormentato col padre emergono con maggiore chiarezza. Il dottor Farber e Edith, la moglie cieca, acquistano un peso etico e simbolico ben più forte: lui è lo scienziato che ha creduto nel potere salvifico delle immagini fino a spingersi oltre il limite; lei è il controcampo di un altro modo di “vedere”, affidato alla memoria e alla voce. Attorno a loro, i personaggi aborigeni non sono più semplice sfondo esotico, ma portatori di un’altra cosmologia, in cui sogno e territorio, canto e paesaggio sono intrecciati.


L’epilogo, che mostra cosa ne è di quei personaggi dopo la fine del 1999, sottolinea la dimensione temporale del film: Fino alla fine del mondo non è soltanto un saggio per immagini, è la cronaca di vite che invecchiano, di relazioni che si consumano nella lunga durata.
La malattia delle immagini
Resta, più limpido di prima, il nucleo teorico del film: la diagnosi di una vera e propria malattia delle immagini. Non si tratta della loro povertà, ma del loro eccesso. Quando il dispositivo del dottor Farber passa dall’esperimento sui ricordi alla registrazione dei sogni, la soglia viene superata. Nel bunker nel deserto, i personaggi cominciano a chiudersi in sé stessi, a stendersi con in mano i loro piccoli schermi, a rivedere in loop le stesse sequenze oniriche. Ogni giorno, invece di vivere, rivedono. Ogni esperienza diventa istantaneamente archivio, ogni emozione si congela in immagine.


Sam Neill and Rüdiger Vogler in Until the End of the World - Director's Cut
by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Quello che nasce come strumento di cura si trasforma in droga. Eugene osserva, con lucidità, che si stanno ammalando di immagini. È un contagio silenzioso, dolce, senza coercizione esterna: è il desiderio stesso di rivedersi, di possedersi come immagine, a intrappolarli. A questo punto, Wenders suggerisce che la via d’uscita non passa attraverso un’ulteriore intensificazione della visione, ma attraverso il ritorno alla parola. È il racconto – il libro che Eugene scrive, la sua voce che accompagna e interpreta – a reinserire le immagini in un ordito di senso, a restituire al flusso visivo la dimensione del prima e del dopo, del perché e del per chi.


Solveig Dommartin in Until the End of the World - Director's Cut
by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
In quella tensione tra icona e narrazione, tra pixel e frase, si gioca un nodo che oggi appare ancora più urgente: come trasformare l’infinito scorrere delle immagini digitali in memoria condivisa, in storia, in comunità, invece che in pura autoipnosi individuale.
Il profeta involontario dell’era smartphone
Visto dalla nostra contemporaneità, Fino alla fine del mondo è sinistramente profetico. La globalizzazione delle immagini che il film mette in scena – il viaggio incessante tra Europa, America, Asia, Australia, le radio che si sovrappongono, i monitor sempre accesi – è diventata l’aria stessa che respiriamo. I dispositivi portatili che punteggiano il film, le tecnologie di geolocalizzazione, la promessa di una connessione permanente, prefigurano in controluce l’oggetto che oggi teniamo in tasca: lo smartphone come protesi del nostro sguardo, dei nostri affetti, delle nostre memorie.


Max von Sydow and Solveig Dommartin in Until the End of the World -
Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Ma è soprattutto la dipendenza dagli schermi a colpire per precisione. Claire che urla disperata quando la batteria del visore onirico si scarica non è più soltanto un paradosso narrativo, ma l’immagine di un panico fin troppo quotidiano. Non siamo più di fronte a un’allegoria astratta: siamo messi di fronte a noi stessi.
Una creatura fuori formato anche oggi?
Così, l’uscita italiana del 9 dicembre, nell’ambito del percorso con cui CG Entertainment sta riproponendo in sala l’opera di Wenders, non è un mero tributo d’autore. È l’occasione di misurarsi, in sala e su grande schermo, con un’opera che appartiene più al nostro presente che al tempo in cui fu realizzata, e insieme di mettere alla prova il nostro modo di guardare: una durata che oggi sfiora lo scandalo, oltre quattro ore di racconto ininterrotto in un’epoca in cui lo sguardo è febbrile, ha soglie di attenzione bassissime, intermittenti, lunatiche.


Significa restituire a un film mutilato la sua forma pensata, il suo ritmo, il suo respiro, ma anche misurare la distanza tra la promessa di immersione del grande schermo e la distrazione permanente delle nostre giornate iperconnesse. Significa interrogare la nostra stessa postura di spettatori, mentre la dipendenza dalle immagini, la confusione fra esperienza vissuta e rappresentazione sono diventati la normalità. Chiedersi se siamo ancora capaci di affrontare un’immagine lunga, di sostenerne il tempo, di lasciarci cambiare davvero da ciò che vediamo.


Filmstill from Until the End of the World - Director's Cut by Wim Wenders
© 1994 Road Movies – Argos Films
Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films
Laddove nel 1991 Fino alla fine del mondo appariva come una creatura fuori formato, non allineato alle logiche di mercato, oggi la Director’s Cut ci consente di capire davvero di che cosa stava parlando Wenders. Non soltanto della fine di un secolo, ma di una trasformazione più radicale: il passaggio dal mondo raccontato al mondo registrato, dal cinema come viaggio condiviso al video come sogno solitario. E, rivedendolo oggi, il sospetto è che quel mondo arrivato “fino alla fine” sia, in realtà, il nostro punto di partenza.

