In un celebre videoclip di Nick Cave and the Bad Seeds, Into My Arms, Jonathan Glazer mette a punto alcuni stilemi ritornanti della sua estetica, già allora ultra-caratterizzata: il rocker si staglia su uno sfondo nero, una campitura di oscurità come quella dentro cui si troveranno a guardare e spesso affondare anche i personaggi del successivo Under the Skin o di quest’ultimo La zona d’interesse. La performance di Cave è inframmezzata dai dolenti primi piani di diversi personaggi colti in attimi di disperazione, rabbia, lacrime, rassegnazione – un lavoro, quello sul close-up, che Glazer porterà avanti poi anche nei suoi lunghi di finzione, come in Birth – Io sono Sean. In una sequenza vertiginosa, il personaggio di Nicole Kidman, seduto all’Opera ad ascoltare l’ouverture delle Valchirie wagneriane, mostra in volto tutto lo shock di quello che sta accadendo alla sua vita.

Glazer rimane a lungo stretto sulle espressioni contrite della donna, che cerca di mantenere il contegno dovuto alla situazione pubblica mentre dentro di lei sembra passare lo stesso turbinio di emozioni che l’orchestra trasmette eseguendo la partitura di Wagner. Ecco, tutto questo apparato in La zona d’interesse è ridotto all’essenziale: spariscono i primi piani e l’apporto musicale è portato al minimo – come fare allora per agitare la stessa angoscia sottopelle che i personaggi del regista tengono costantemente repressa, sepolta sotto l’apparente apatia?

La zona d'interesse (Credit: Courtesy of A24)
La zona d'interesse (Credit: Courtesy of A24)

La zona d'interesse (Credit: Courtesy of A24)

L’espediente escogitato dal complesso dispositivo costruito intorno allo scheletro del romanzo di Martin Amis gira tutto intorno alla potenza evocativa del sonoro. Da questo punto di vista La zona d’interesse è un’esperienza puramente “installativa”, che si serve della natura perturbante degli stimoli sonori per fornire vere e proprie indicazioni di movimento dello sguardo e dell’attenzione, dato che il meccanismo prevede sole inquadrature fisse in stile panottico – una fruizione vicina, appunto, a quella di un visitatore di una galleria d’arte contemporanea che si muove tra i pannelli e le stanze dell’architettura di Glazer, trasportato dagli indizi che il tappeto di suoni lascia sospesi nell’aria (e d’altra parte il film ad un certo punto svela esplicitamente questa sua vocazione espositiva con il salto nel futuro per i corridoi dell’Aushwitz musealizzata, alla Loznitsa).

Si tratta di un insieme di pratiche con cui il cinema arthouse del presente, più o meno mainstream, flirta in maniera sempre maggiore, ma se La zona d’interesse è (vicino alla) videoarte, lo è anche per come, appunto, costruisce l’eco mostruosa di uno spazio esterno impossibile intorno alle giornate casalinghe della famiglia Hoss attraverso i segnali uditivi, le urla in lontananza, i rumori della guerra, ma anche le note minacciose della colonna sonora di Mica Levi durante gli assurdi inserti di animazione “in negativo”, le uniche favole della buonanotte immaginabili in mezzo all’Olocausto. Mentre la recitazione atonale e i suoni glaciali replicano alla fredda lingua della burocrazia impegnata a stilare il piano per lo sterminio e la disumanizzazione, Glazer continua così la propria riflessione sulle pratiche della simulazione (come è chiaramente simulata l’armonia familiare di casa Hoss): La zona d’interesse sembra la versione essiccata di quello che è il commercial forse più pazzesco girato dal regista, quello per un televisore Sony del 2006, in cui le cariche esplosive che “brillano” per demolire un intero quartiere di case e palazzi vengono sostituite dalle detonazioni di cannoni di vernice, che rilasciano enormi macchie di colore nell’aria e sulle pareti, sulle scale delle abitazioni.

Quella che in apparenza è una pioggia arcobaleno atta a mostrare la definizione dei toni del televisore, si trasforma presto nell’ennesima visione apocalittica, immagine di un assalto silenzioso, proprio grazie al suono sordo, secco, violento dei fucili sparavernice utilizzati dallo spot. Un rumore sinistro, una frequenza subliminale che disturba l’apparente neutralità delle immagini: il segno di Jonathan Glazer.