PHOTO
2025 Daniele Venturelli
“Ho incontrato i miei sostenitori ovunque: in albergo, in aereo, al ristorante, per strada. In questi anni diverse persone mi hanno fermato per salutarmi, darmi un segnale di incoraggiamento, per sostenermi attraverso le loro parole. Ovviamente so che ci sono migliaia di persone che mi disprezzano e mi odiano, però, quelle le ho incontrate soltanto on line”. Così l’attore americano Kevin Spacey, due volte premio Oscar, rispetto a quanto vissuto negli ultimi anni, da quando è stato accusato di molestie eppoi assolto.
Un passaggio significativo della Masterclass tenuta a Riccione durante la prima edizione dell’Italian Global Series Festival in cui, incontrando per la prima volta il pubblico italiano ed internazionale in maniera così diretta e “senza protezioni”, ha potuto constatare il genuino entusiasmo e “l’immutato affetto” nei suoi confronti. Normale? No, tutt’altro. Al di là della questione in sé stessa, anche solo un mese prima del Festival delle serie, alcuni benpensanti digitali si indignavano a vederlo a Cannes. Qualcuno scriveva o diceva di non volerlo “nemmeno vedere”.
È vero sulla Croisette, Spacey aveva ritirato un “enigmatico” premio riguardante il futuro, mentre l’Italian Global Series Festival lo ha celebrato per quanto fatto in passato esclusivamente come attore e regista soprattutto teatrale. Eppure non può essere stata questa “distinzione” a tenere fuori l’ondata di odio nei suoi confronti, il risentimento, la rabbia, il picchettaggio… e allora cosa?
La questione non riguarda solo Kevin Spacey, ma è verosimilmente molto più profonda e perfino pericolosa: se tutti pensavano davvero fino a poche settimane prima che l’attore fosse un “paria”, qualcuno che perfino se assolto andava dimenticato o ignorato, perché nessuno – al di là di non averne scritto – si è presentato a Rimini e Riccione urlando con cartelli?
È una questione grave: come Direttore di quel Festival una delle condizioni per la presenza di Spacey, visto che nessuno viene pagato e nessuno può partecipare ad un evento finanziato con denaro pubblico senza aderire preventivamente al progetto culturale di incontro e di dialogo, era quella di tenere una lezione e di vedere ed incontrare le persone. Se ci fossero stati gli hater sarebbero, giustamente, stati liberi di esprimere civilmente il loro disappunto nei confronti di Spacey, ma non era pensabile creare una “bolla” intorno Spacey, perché sarebbe venuto meno il senso di presenza e testimonianza culturale che un evento pubblico deve avere per in nome della democrazia stessa.
E così è stato, ma gli hater o – comunque – chi voleva esprimere civilmente il dissenso nei suoi confronti non si è presentato: distante, faticoso, inutile? Difficile da dirlo se ci si trova dall’altra parte, ma se i Festival debbono continuare ad essere terreno di incontro, di dialogo, di discussione, come può accadere tutto questo se nemmeno dinanzi ad un attore inerme e giudicato innocente non si presenta nessuno e – ripeto – nessuno ad alzare la mano e iniziare educatamente la domanda dicendo “ma” o “però”?
Nello scrivere queste righe non c’è nessun senso di “vittoria” o di soddisfazione, anzi: quando il dibattito culturale non si materializza in persone, ma si riduce ad avvelenati soliloqui digitali, la cui vanità è incrementata da centinaia di commenti anonimi, talora, autoprodotti, ci si rende conto che il senso ultimo della cultura e democrazia sta venendo meno.
Il dialogo non c’è e queste pericolose polarizzazioni che ci obbligano ad avere un opinione su tutto senza capire il valore di niente, sono l’ennesimo frutto di manipolazioni di cui sono responsabili non solo i colossi della Silicon Valley, ma anche i governi. Azioni che minano il senso ultimo del valore del confronto, hackerato da algoritmi e da interessi geopolitici come dimostra lo studio condotto a Parigi dall’Osservatoire de la Diplomatie Numérique di Sciences Po che ha, per esempio, preso in esame nel dettaglio l’operato della Repubblica Popolare Cinese sui social network internazionali, analizzando un campione di oltre cinquecentomila account Twitter attivi tra il gennaio 2021 e il dicembre 2023 per capire in che modo i suoi bot contribuissero alla costruzione e all’amplificazione di specifiche narrative geopolitiche.
I ricercatori hanno innanzitutto ricostruito l’architettura tecnica con cui questi bot operano, soffermandosi sulle infrastrutture di cloud hosting ubicate sia in Cina continentale sia in zone franche come Singapore, Hong Kong e gli Emirati Arabi Uniti, che garantiscono una notevole resilienza contro i tentativi di individuazione e sospensione da parte delle piattaforme occidentali. Partendo dall’ipotesi che non si tratti di fenomeni sporadici ma di una strategia di digital diplomacy orchestrata, il team ha applicato un metodo ibrido che combina analisi di rete, apprendimento automatico e analisi semantica.
L’analisi di rete ha permesso di distinguere cluster di account le cui attività risultano perfettamente sincronizzate nell’orario e nei contenuti pubblicati: in certi casi centinaia di bot retwittavano simultaneamente slogan a sostegno dell’iniziativa Via della Seta, altre volte rilanciavano articoli di organi di stampa statali cinesi tradotti in francese, inglese, spagnolo e arabo. E cosa dicevano “di bello” questi articoli? Insistevano sulla glorificazione del modello di sviluppo cinese come alternativa all’Occidente, la minimizzazione delle critiche occidentali relative ai diritti umani a Hong Kong, la promozione dei vaccini prodotti in Cina e, in un secondo momento, la costruzione di messaggi dissuasivi rivolti all’Unione Europea.
Un elemento sorprendente emerso dallo studio riguarda la capacità di alcuni bot di reagire in tempo reale agli eventi: bastava la pubblicazione di una notizia critica nei confronti della Cina – per esempio un reportage sulla sorveglianza di massa – perché una decina di minuti dopo si attivasse un “task force” digitale pronta a saturare e intasare le discussioni con commenti aggressivi e retweet a catena di post pubblicati da profili istituzionali cinesi. La scoperta più inquietante? Bastano solo 8,3 minuti tra la comparsa del contenuto critico e il picco di attività bot, un dato che conferma il coordinamento centralizzato di queste operazioni da parte di agenzie governative.
Non meno rilevante è il contributo dell’indagine sulle sovrapposizioni tra bot cinesi e account rilevati nelle campagne di influenza russe o iraniane: in alcuni casi si sono riscontrati profili “mutanti” capaci di saltare da una narrazione all’altra, passando senza soluzione di continuità da tweet in mandarino dedicati a tematiche interne alla Cina a thread in inglese che attaccavano le politiche dell’amministrazione Biden o rilanciavano messaggi vicini alle posizioni di Teheran. Questo fenomeno, definito nel report “propaganda ibrida”, suggerisce l’esistenza di una vera e propria industria internazionale della manipolazione digitale, in cui attori statali o para-statali cooperano o condividono toolkit e dati di monitoraggio per massimizzare l’efficacia dei loro interventi online.
Le implicazioni per la sicurezza informativa sono molteplici. Il report di Sciences Po sottolinea come la presenza di bot cinesi renda più complessa la distinzione tra critica legittima e manipolazione politica, contribuendo a innalzare i livelli di sfiducia del pubblico verso le istituzioni democratiche, già affaticate dal costante flusso di fake news. A questa sfida si aggiunge il rischio che le politiche di contrasto delle piattaforme, improntate esclusivamente sulla rimozione di contenuti fuorvianti, finiscano per penalizzare anche le voci dissidenti autentiche.
Nel complesso, lo studio parigino offre una fotografia dettagliata di come la Repubblica Popolare Cinese abbia evoluto le proprie strategie di influenza digitale, spostando l’accento dalla pura diffusione di contenuti verso un approccio che integra tecnologia, storytelling e geopolitica, e getta le basi per un confronto più strutturato tra ricercatori, piattaforme e istituzioni chiamate a tutelare la resilienza delle nostre democrazie.
Con buona pace di chi si indigna e che non si può manifestare nel mondo reale o perché non esiste, o perché è più facile nascondersi che discutere davvero. Il nostro pensiero e la capacità di dibattito sono stati hackerati e la risposta a tutto questo è evidentemente la guerra. Digitale o tradizionale che sia, gli algoritmi ci vogliono separati, polarizzati e gli uni contro gli altri. Forse è necessario un vero vangelo digitale per cambiare questo orrore.