Tenere a sé un animale, negargli per capriccio il ritorno alla Natura non è un amore, ma un atto di egoismo da cui emanciparsi. Ne è convinto Guillaime Maidatchevsky, ormai specialista in film al altezza di animale (annotiamo solo, per brevità, il grazioso Ailo – Una avventura tra i ghiacci e il dimenticabile, più recente Kina e Yuk alla scoperta del mondo).

Ora, però, accantonato il documentario, il cineasta ha virato verso il live-action per rilucidare il (già paludato) romanzo di formazione uomo-felino a tinte letterarie: Rroû è il besteller francese di Maurice Genevoix del 1931 cui Maidatchevsky insieme al co-sceneggiatore Souhaité si è ispirato per vergare la sceneggiatura.

Ma Vita da gatto che - forse giova notarlo, nulla ha a che spartire (purtroppo) con l’omonima metamorfosi felina di Kevin Spacey - dopo un incoraggiante incipit collettivo, quasi andersoniano nello sguardo accorato e buffo con cui la cinepresa segue le acrobazie al chiaro di luna di vari felini in una soffitta parigina, si rivela ben presto così smaccatamente paideutico che avventura, peripezie, abbandoni e ritorni della piccola Clémence (Capucine Sainson-Fabresse) con il fido felino si stemperano in una storia lacrimosa, bolsa, fin troppo programmatica per incuriosire, dilettare e convincere.

Protagonista è la piccola di dieci anni, convive in un appartamento cittadino, con due genitori che non fanno altro che litigare, fin quando il gattino Rroû gli piove in camera dalla soffitta condominiale. Per Clémence diventa il primo diletto e il primo pensiero una volta sveglia.

Quando i tre partono in villeggiatura nella montuosa Vosgi (nord est della Francia), la fanciulla ottiene di portare con sé il gattino, subito mesmerizzato e impaurito da valli e cime e praterie a perdifiato. Mentre mamma e papà continuano a scornarsi, Clémence lo cerca con il cuore in gola nei boschi, Rroû si inoltra nel verde, rischia la pelle, si perde, viene attaccato da altri animali e salvato dalla burbera Madeleine (Corinne Masiero). La bambina deve rassegnarsi a tornare a casa senza il suo micio, lì dove l’attende l’ormai annunciata separazione dei genitori.

Da un lato lo sguardo sfiduciato sulle relazioni umane, su genitori inadeguati, causa di angoscia e insicurezza verso le giovani creature, dall’altro la venuta improvvisa di un animale come latore di serenità, che spinge alla maturità la giovane, ma che reclama comunque libertà, indipendenza e un contatto assoluto con la varietà del mondo naturale di appartenenza.

 È il binario discorsivo su cui Maidatchevsky incanala il suo Vita da gatto, già sfilato e premiato al Giffoni Film Festival 2023 (miglior film nella sezione Elements +6). Eppure il tenero, compassionevole apologo animalista, nascosto dentro lo schematismo discorsivo città/campagna, dispersione/rigenerazione d’involucro, appare fin troppo semplificato, spompo, prevedibile. Un film che si rivela illustrativo senza autonomia discorsiva, senza la pienezza e l’altezza di una denuncia a favore del regno animale perché cerca ad ogni scena la compassione per il destino doloroso di Clémence, senza dignificarlo.

In clausola va annotata anche la cronica carenza di ritmo appropriato, (inizio a parte), evidente soprattutto nei tipici inserti naturali da adventure movie; la fumosità di certi dialoghi (i litigi tra papà Fred e mamma Isa sono piatti e generalizzanti); e un’impianto visivo incapace di tradurre con densità visiva la fonte letteraria di partenza.