Guardare le foto d’archivio delle prime edizioni dei Festival e dei grandi premi internazionali come Oscar, Golden Globe ed Emmy, ma anche dei David di Donatello, soprattutto delle premiazioni che si tenevano a Taormina negli anni Sessanta, è come sfogliare le pagine di un album di famiglia dove tutti ci riconosciamo un po’ diversi da come siamo.

Ci vediamo certamente più giovani, alle volte più eleganti, più o meno in forma, ma – soprattutto – oltre ad essere (ahimé) evidentemente più “freschi ed ingenui” ci troviamo più goffi e meno in linea con l’immagine che oggi abbiamo di noi stessi. Lo stesso vale per quelle foto, spesso, in bianco e nero, dove ritroviamo attori affascinanti e attrici dalle toilette bellissime e perfette circondate, però, da dettagli anomali: come posaceneri e sigarette (oggi non politicamente corretti); come abbondanti piatti di pasta e fiaschi di vino; come – ancora – sfondi non glamour quanto si potrebbe e si è portati a pensare.

Va anche detto che questi scatti sono la minoranza: la parsimonia della pellicola (e dei flash non riciclabili…) nonché lo studio maniacale della perfezione fa sì che tutti questi momenti siano celebrati in maniera unica e molto attenta, passati al vaglio di uffici stampa estremamente diligenti che hanno lasciato sopravvivere solo il meglio di un’epoca in cui il peggio (ammesso che non sia impresso su qualche negativo sotto la polvere in qualche archivio privato) non è sopravvissuto fino a noi.

Burt Lancaster con Jack Lemmon, Oscar per Mister Roberts (Annex)
Burt Lancaster con Jack Lemmon, Oscar per Mister Roberts (Annex)

Burt Lancaster con Jack Lemmon, Oscar per Mister Roberts (Annex)

Non è così, invece, per quello che riguarda la nostra epoca: il glamour, i sorrisi forzati, le scollature, i vestiti trasparenti, gli smoking e le invidie restano, mentre a transitare verso una nuova era della comunicazione sono le foto che tutti postano dai loro account con milioni di follower e che, anche lì, vengono curate, editate, paintshoppate per mostrare il meglio sempre e comunque. La differenza, però, sta nella contemporaneità e nella condivisione.

Soprattutto per quello che riguarda l’Oscar, nel corso degli anni Novanta e – in particolare – negli anni Duemila con la novità del satellite casalingo, si è iniziato a condividere la serata, facendo di un evento mondano – e nel migliore dei casi – artistico; qualcosa di cui discutere e per il quale perfino litigare con la tifoseria degna del migliore derby calcistico. Del resto la partigianeria tutt’altro se non per nulla “salomonica” legata al cinema fa sì che ci siano proprio grandi divisioni tra “squadre” che competono tra di loro e – soprattutto – tra fazioni che si schermiscono a colpi di post e di tweet.

Questo fenomeno che in Italia abbiamo riscontrato soprattutto con il nazional popolare festival di Sanremo e che è stato riconosciuto in un’analisi corretta del direttore di Radio DeeJay Linus a La Repubblica, fa sì che un evento, abbracciato e condiviso dai social, diventi “virale” al punto da alimentare in maniera esponenziale la fruizione televisiva tradizionale e il racconto di quotidiani e settimanali patinati. L’integrazione tra classico e social porta a qualcosa di imprevedibile e, forse, perfino incontenibile.

Ma se a Sanremo c’è un Direttore Artistico che con intelligenza “sulfurea” sceglie argomenti e lascia accadere (finte) situazioni incresciose come il più smaliziato sceneggiatore, con tutti che si allineano docilmente ai loro ruoli di protagonisti o di comprimari, nei premi più “evoluti” legati al cinema o alla serialità, le cose cambiano. La continuità di un evento di cinque giorni, poi, ha ben altre possibilità narrative e mediatiche rispetto ad una singola serata o ad un Festival cinematografico che oltre al glamour combina anche mondi diversissimi come quelli legati all’arte e alla politica.

Eppure, sempre più di frequente, sul curriculum inviato alle redazioni dallo speranzoso ufficio stampa di questa o quell’attricetta procace e di grandi speranze, nonché di quel bel giovane attore così seducente, leggiamo che tra gli scalini dell’Olimpo audiovisivo scalati con difficoltà c’è “la presenza sul Red Carpet al Festival di Venezia”.

Lo spiegheremo nella maniera più chiara possibile perché ci si rende conto che la cosa abbia dell’incredibile: un attore o un’attrice giovane e che non ha niente a che vedere con la produzione in oggetto (non ha fatto nemmeno la comparsa) inserisce sul proprio CV professionale la presenza sul Red Carpet a Venezia per un film che, alla fine, verosimilmente non ha nemmeno visto e, temiamo, purtroppo nemmeno capito. Una conseguenza collaterale della propria deambulazione festivaliera legittimata, però, da una foto sul tappeto rosso, magari con un’ignara celebrity o – alla peggio – con il Direttore Artistico obbligato per ruolo e forse contratto a stringere mani ignote e a baciare chiunque glielo chieda.

Festival di Cannes
Festival di Cannes

Festival di Cannes

Come dire: in un’era in cui la comunicazione era controllata sarebbe stato tostissimo far sapere a tutti di essere finiti sul Red Carpet di un film, tanto è vero che bisognava puntare a gesti più eclatanti, sebbene oggi impensabili. Anni fa il padiglione del Festival di Taormina si riempiva sempre di visitatori ad una certa ora (non quella degli spuntini) perché posizionato strategicamente (ma involontariamente da parte degli organizzatori…) con una vista perfetta sul punto di spiaggia dove le stelline dell’epoca dovevano fare il bagno in topless per ambire ad una qualche menzione da parte della stampa.

Nell’era dei social fai da te e dei follower acquistati sul mercato globale, ecco che le circostanze intorno all’evento diventano – momentaneamente – più importanti di quello che è l’oggetto del contendere: che sia il cinema, la musica o altre forme d’arte e di espressione, il contesto è quello che ingloba l’evento, paradossalmente, rafforzandolo e rendendolo “di tutti”. Scegliere di “vedere” o di “non vedere” Sanremo è un lusso mediatico raro: il marketing audiovisivo porta le persone a interessarsi a certi film ed è straordinario poter porre qualcuno dinanzi all’ineluttabile scelta tra il seguire o non seguire qualcosa.

Ma questo accade solo in virtù della condivisione, dell’arrivare dell’evento stesso nei nostri feed di news e nella condivisione social. Oggi è possibile, come nei pezzi migliori della recherche proustiana durante le chiacchiere dei salotti riguardo all’attrice, formarsi un’idea rispetto a quanto sta accadendo grazie ai social.

È un bene? Oppure ci troviamo dinanzi ad una forzatura mediatica incontenibile che andrà sempre più a segnare il nostro futuro? Un po’ come la Sophia Loren e il Marcello Mastroianni di Una giornata particolare, essere lontani dall’evento e dal rimbombo mediatico fa sentire un po’ degli “outcast”, degli “esclusi” eppure la realtà dei fatti è che il flusso di comunicazione di certi eventi legati al mondo dell’entertainment si è alimentato quando ad innescarlo è stato un perfetto allineamento di continuità tra momenti diversi.

Basti pensare all’Eurovision, versione paneuropea del nostrano Sanremo, diventato internazionale e apprezzato in prima serata grazie proprio ai social che, come nei campionati di calcio, portano persone di nazionalità diverse davanti alla televisione per sentire cantare gruppi e artisti, talora, apparentemente improbabili.

Eppure, sorpresa, è così che si fonda l’identità dell’immaginario collettivo. Con eventi che toccano la vita di tante persone, apparentemente, distanti tra loro. Un trampolino potentissimo, ma anche una potenziale ghigliottina come nel caso di Will Smith che con il suo pugno improvvido e spiacevole a Chris Rock si è condannato da solo alla Gehenna della stupidità.

I premi, gli eventi, quindi sono i primi beneficiari dell’azione dei Social Media che, oltre all’immediatezza, restituiscono allo spettatore l’illusione della presenza in virtù dell’interazione contemporanea su un palco globale dove tutti noi abbiamo l’illusione di potere salire a dire, raccontare e – talora – perfino a cantare.

Ed è così che gli album degli Oscar con talenti insuperabili e veri divi che oggi non esistono ci restituiscono un friccico di emozione, ma anche di nostalgia per un’epoca – apparentemente – ingenua che oggi con tutte le sue bottiglie vuote di champagne ci fa perfino un po’ di tenerezza.