Le opere di Mario Martone, in special modo quelle della maturità, come Noi credevamo e Il giovane favoloso, sono spesso sofisticati congegni di montaggio che ci restituiscono il senso di una totalità. Risolvono cioè dentro la propria parabola narrativa le incongruenze, le distonie, le irresolutezze della vita senza cancellarle. Le speranze tradite dei giovani rivoluzionari (Noi credevamo, Capri-Revolution), gli atti mancati del poeta tormentato (Il giovane favoloso), il tarlo della frustrazione che impedisce la piena realizzazione dell’artista di fama (Qui rido io): restano. Sono i vuoti di ogni esistenza.

Ma il cinema di Martone sa ripianarli con l’aiuto della poesia, l’intelligenza dell’ironia, l’elastico del giudizio. Nella plancia della Storia intravede lo sconosciuto timoniere che riporta l’insostenibile casualità delle cose sull’invisibile rotta. E così le vicende, anche le più tragiche, come quelle del matematico suicida (Morte di un matematico napoletano), si rivelano degne, esperimenti del vivere in pienezza sempre validi ancorché fallaci, perché misurati col metro fuori grandezza del sentimento della solidarietà umana.

Da che cosa lo vediamo? Dicevamo del lavoro del montaggio, prezioso perché al pari della morte, come ricorda Pasolini, serve ad esprimere il significato profondo di una vita, che altrimenti sarebbe solo un susseguirsi quantitativo di fatti. Il montaggio è invece la somma qualitativa dei fatti. La necessità intima del segmento di relazionarsi con il precedente e il successivo. E di trovare in questo rapporto il proprio motivo, la propria ragion d’essere. Gli istanti convergono, si rivelano Tempo. Un tempo non cronologico, lineare. L’intuizione semmai di una compresenza, di una risoluzione del passato nel presente e viceversa.

Ecco perché il cinema di Mario Martone, in quello che è un meraviglioso paradosso, non si esaurisce certo in una sorta di teleologia del montaggio. Ci sono nei suoi film fiammate, scarti significativi, frammenti che in un attimo ribaltano tutto. Momenti attraverso cui la vita non passa, ma si rivela. Quando nel finale de Il giovane favoloso la macchina da presa si fissa sugli occhi rigati di lacrime del Leopardi, finalmente il cinema e la poesia – ovvero quel guardare che mette in moto e quel nominare che crea - si fondono in maniera mirabile. I versi della Ginestra congelano il furore del Vesuvio che tutto intorno erutta e infiamma e incenerisce la terra; il cielo oscuro e stellato evapora perdendosi nelle lontananze della notte cosmica, mentre affiora “il viso” che tutto riflette e trattiene e forse se ne lascia sopraffare.

Momento altissimo, di sovrumana violenza mista a bellezza, di orrore sublimato, assimilato, trasformato in commozione. Timore e stupore si compenetrano e si innervano nella straordinaria mimesis facciale di Elio Germano. Si sgretola la maschera, affiora la luce dal fondo del mistero del volto umano, chiave del suo disvelamento: riconosciamo nel Leopardi uno di noi, ora che il Leopardi riconosce – ne La ginestra, il suo finale di partita - di essere uno con noi. Tutto è compiuto, il grande scettico ritrova il fiore e la fragranza della solidarietà umana nella coscienza di una comune e infelice sorte.

E che dire di quel breve passaggio, nell’epopea risorgimentale di Noi credevamo, in cui il futuro si aggetta nel passato come una sorta di premonizione: come una visione spuria, la visione epigrammatica di un abusivismo edilizio dentro l’imagerie ottocentesca del film ha la potenza di uno shock percettivo e culturale, che finisce per far detonare la scena, svelarne gli inganni, predirne il destino. E insieme segnalare l’autore, lo sguardo ogni volta parziale sulle cose umane e perciò aperto a un’ulteriore configurazione di senso.

E ancora, in Nostalgia, l’immagine di Felice (Pierfrancesco Favino) che tiene in braccio l’anziana madre (Aurora Quattrocchi) e la mette nella tinozza da bagno. Come se fosse una “deposizione al contrario”. Un momento sfalsato, che s’impone per intensità e significato su tutto l’asse narrativo e semantico del film. Lo riorienta, lo aggiusta. Ecco che il vero finale non è scritto nell’ultima scena. È il momento di rottura, la sequenza che esplode all’improvviso facendo deflagrare l’intorno e tutto ricollegando a sé. Ed è ancora una volta non la vittoria del male ma l’inafferrabile impulso di amore dell’essere umano a imporsi. Anche quando si volge a commozione pura, impotente nell’economia del mondo, vincente secondo la logica dell’invisibile.

Orizzontalità e verticalità. Il cinema, nella sua espressione più alta, vive costantemente di questa tensione: del montaggio che accorda, mette insieme; e dell’inquadratura che fa deragliare l’ordine del tempo, l’inesorabilità della morale, l’inarrestabile propagarsi della vita e delle sue conseguenze lungo l’arco definito della durata. Questa verticalità crea un inarcamento del film verso un punto lontano, nascosto. Il qui è altrove. Il campo fuoricampo.

Il cinema di Martone è intessuto di questa nostalgia senza passato. E del resto per l’anacronismo dichiarato che caratterizza i suoi film, il passato è presente e futuro. Stratigrafia di momenti interiori, piuttosto che di tempi storici. La cosa interessante in questo rimpianto senza oggetto, nel desiderio inesaudibile che muove i personaggi, è il tentativo di suturare questa ferita aperta nel corpo della vita con l’ideale della rivoluzione, l’utopia, l’amore terreno, il pubblico riconoscimento, il riscatto sociale.

Tentativo destinato ogni volta a fallire per incongruenza con l’oggetto del proprio scontento. Mai però da deridere: lì troviamo l’umanità oltre l’uomo, un comune sentire, il senso della solidarietà.

Il carattere napoletano del cinema di Martone vive di questo avviluppo dell’alto e del basso, del centro e della periferia, della natura e della cultura, della materia e dell’anima. Riproposto come polarità drammaturgica, come ne Il sindaco del rione Sanità o in Nostalgia; riassorbito dallo spazio, quando ad esempio la natura vulcanica, ancestrale della città si specchia nella brulicante e rumorosa, violenta e mortale, Napoli metropolitana. Questa tensione non è congelata. È scivolamento, ibridazione, metamorfosi: è la chiave del lavoro di Martone, un continuo sconfinare tra le forme del cinema e quelle del teatro e persino dell’opera lirica. Sempre spingersi oltre, verso il nuovo, nell’anticamera che precede ogni definizione.

Opera che resta aperta, sospesa. Perciò in dialogo. Con lo spettatore, con le fonti letterarie (da Elena Ferrante a Ermanno Rea), ancora con Napoli. Con chi non è qui, ora. L’impressione è che sia sempre spostata, un po’ di là. Popolata di fantasmi, figure che attraversano tutto il suo cinema – da Morte di un matematico napoletano a L’amore molesto ma anche nei più recenti Noi credevamo e Capri Revolution – fino a renderlo spettrale rispetto alla rievocazione della storia e della memoria (e rievocazione e memoria non sono forse gli espedienti usati dai fantasmi per arrivare a noi?).

Nello scandaglio interiore dei suoi personaggi avvertiamo l’epifania di un’intima disappartenenza, la soglia di un’identità non risolta, interrotta. E insieme la tensione di un suo avveramento. Verso quel punto ignoto in cui sembra declinare il suo cinema. La promessa che esiste ed esisterà sempre qualcosa da riconquistare.