S’intitola Nezouh, che in arabo significa movimento d’acqua, di persone e di cose, è il film della siriana Soudade Kaadan. Già premiata a Venezia per la sua opera prima The Day I Lost My Shadow, ha presentato al Med Film Festival l’opera seconda, anche questa passata alla Mostra del Cinema di Venezia 79 nella sezione Orizzonti Extra: un racconto allegorico di emancipazione femminile sullo sfondo del conflitto in Siria.
Tutto si svolge a Damasco (ndr. In realtà il film è stato girato al confine tra la Siria e la Turchia, vicino ad Aleppo, perché la regista, nata e cresciuta a Damasco, dal 2012 non può più tornare lì), dove una famiglia decide di rimanere nella zona assediata finché una granata provoca una voragine nel tetto dell’edificio in cui vivono la quattordicenne Zeina e la sua famiglia.

“Nel mio primo film ho parlato del trauma della guerra quando ancora vivevo in Siria- racconta la regista-. In questo invece ero in Libano e vidi una foto nella quale c’era una casa che era stata distrutta da una bomba. La luce entrava da un buco nel soffitto. Questa foto mi ha folgorato. Così ho deciso di raccontare il conflitto da un’altra angolazione e di far vedere anche come era cambiato il ruolo delle donne”.

Così Soudade Kaadan ha deciso di raccontare la guerra da un’altra prospettiva e anche il patriarcato. “Non volevo dare una visione pessimistica e vittimistica delle cose. Volevo che lo spettatore guardasse questa storia un po’ piangendo e un po’ ridendo. Noi siriani dobbiamo capire quale è la giusta narrazione della nostra guerra. Anche i palestinesi ora finalmente si iniziano a raccontare non più come vittime, ma come esseri umani. Non volevo dare una visione manichea delle cose. Anche per quel che riguarda i miei personaggi. Non volevo descrivere gli uomini cattivi da una parte e le donne buone dall’altra. Ogni personaggio ha le sue sfaccettature e le sue zone d’ombra. La stessa Zeina continua a dire bugie ai suoi genitori. Ma tutti i personaggi di questo film nel corso della storia cambiano e questo mi interessava molto”.

E sulla guerra: “I primi anni della guerra eravamo traumatizzati, depressi e sconvolti, poi abbiamo scoperto una resilienza pazzesca. Anche arrivati in Europa la prima cosa che notavano di noi rifugiati era il sorriso. Penso che l’arma della resistenza siano l’amore, l’amicizia e i rapporti umani. Adesso la Siria non è sulle prime pagine dei giornali, molti non ci volevano finanziare il film perché il conflitto siriano non va più di moda. Sono passati più di dieci anni dall’inizio della guerra e la situazione è più tragica che mai: siamo atterriti”.

Il suo film riesce a raccontare la guerra con poesia, con realismo magico. “All’estero mi chiedono spesso questa cosa del realismo magico, in Italia mai perché da voi è normale passare tra toni e generi diversi e prendersi delle licenze poetiche e cinematografiche. Il mio film è politico, non si nasconde, ma ci sono tanti modi diversi per prendere posizione. Non si prende posizione solo attraverso un cinema di propaganda. Per esempio La vita è bella è un film che racconta la guerra senza mai farla vedere. Il cinema italiano ha avuto un grande impatto su di me e mi ha influenzato. Io ho voluto raccontare la quotidianità della guerra e non la guerra in modo epico e roboante”. Ma il suo film finisce con un happy ending? “No, perché non sappiamo se i nostri protagonisti ce la faranno a scappare. Io ho voluto raccontare la fase prima, quella della decisione, quella in cui si decide se partire o restare. Il film si ferma sulla fase successiva”. Un happy ending però sicuramente c’è: questo bellissimo film uscirà prossimamente in sala in Italia distribuito da Officine Ubu.