All’appellativo di “Signora dei David” Piera Detassis preferisce “autorevole osservatrice” quando le chiediamo una fotografia del cinema italiano alla vigilia della 69ma edizione del premio (qui le candidature). Parole penetranti, quella della Presidente e Direttore Artistico dell'Accademia del Cinema Italiano - Premi David di Donatello. Così, se l’uragano Cortellesi c’è stato, non ha terremotato il sistema: “Abbiamo avuto ottimi film, siamo arrivati in cinquina agli Oscar, c’è stata un’operazione di intervento del servizio pubblico molto forte, ma le quote di mercato non lievitano”.

Tallone d’Achille?
“La commedia. Non ha fatto il passo decisivo. Non siamo più alle corna, ma nemmeno altrove. Abbiamo introdotto, con qualche forzatura le quote diversity e il tema dell’emancipazione femminile usando il bilancino dell’inclusività. Tolta la commedia d’autore, facciamo fatica a stare nella contemporaneità”.

Si produce troppo?
“Non mi piacciono i discorsi populisti. Non è che se un film incassa poco è sbagliato. Quanti autori non avremmo scoperto se usassimo come metro solo quello degli incassi. Però è chiaro che qualche problema c’è”.

Il famoso ricambio generazionale?
“Abbiamo maestri in formissima, come Bellocchio, Moretti, Martone. Grandi autori non più giovanissimi come Sorrentino e Garrone. Ma non ancora una nuova generazione d’autori. E di conseguenza nuovi immaginari”.

E dire che le scuole di cinema non si contano.
“Bisognerebbe tornare in strada. La realtà di questo paese è altra cosa. Troppa autoreferenzialità”.

E gli attori che passano dietro la mdp?
“Probabilmente iniziano a sentirsi stretti. Fenomeno interessante”.

Cos’altro?
“Vedo un ritorno al cinema civile, come Cento domeniche di Albanese o Palazzina Laf di Riondino. C’è la vitalità del documentario. Ci sono la Cortellesi o la Ramazzotti, interessanti non in quanto donne ma perché le donne sono quelle, oggi, che ti tirano fuori un film libero dal retaggio ideologico dei loro colleghi maschi. E c’è un cambio di gusto del pubblico, complice l’assenza del prodotto americano: film come La zona d’interesse segnalano uno spostamento importante. Di cui un po’ di merito va dato alle piattaforme”.

In che senso?
“Hanno preparato il ritorno della gente in sala, perché hanno allargato l’immaginario, contribuendo a creare uno sguardo globale, inclusivo, favorendo la visione in lingua originale, educando lo sguardo all’immagine, anche alla peggiore. È come se avessimo capito che cosa si può vedere sulle piattaforme a casa e cosa al cinema. E solo quest’ultimo incrocia in profondità gli eventi della vita”.

Che mondo trova oggi il cinema?
“Non siamo più nella società dello sguardo ma in quella della guerra. Domina il voyeurismo e nello stesso tempo l’indisponibilità a vedere”.

E i David?
“Cercano il nuovo, con iniziative come Becoming maestre, Uniti per la scuola, il David Rivelazioni. Con il premio al casting, introdotto prima degli Oscar. Con la sinergia con associazioni e mestieri, le membership. Con la partecipazione: dei 1800 giurati oggi vota il 92%, una percentuale importate e cresciuta negli anni. Oggi il David è diventato un brand”.

Più missione che premiazione.
“Ma anche il glam e la comunicazione sono importanti”.

E la diretta televisiva?
“L’operazione più difficile: conciliare la serietà del cinema con la leggerezza della tv generalista. Il format, grazie a Rai, con il supporto del consiglio direttivo e il forte sostegno del ministero e della sottosegretaria, lo stiamo rivisitando. Speriamo di riuscire a trovare, con il tempo, il punto di nuovo equilibrio”.