PHOTO
Kadosh
A inizio del secondo millennio la condizione femminile in una enclave speciale come è il quartiere di Mea Shearim, la “via delle cento porte” a Gerusalemme, non ha avvertito gli effetti della modernità. Né tantomeno oggi ha risentito i segni del cambiamento e di un conseguente adattamento tale da scalfire minimamente la granitica tradizione degli hassidim, sempre fedeli a se stessi nello scorrere del tempo. Non si tratta di effetti sulla fede, ma sullo stile di vita, sul modo di concepire i ruoli e le relazioni.
Gli hassidim, i “pii” difensori della tradizione, la comunità ultraortodossa sottomessa alla stretta osservanza delle rigide leggi dell’Halakhah, non si lasciano condizionare né tanto meno dominare dalle suggestioni della contemporaneità. Tutta la loro esistenza, “dal sorgere del sole sino al suo tramonto”, è scandita dalla preghiera, centrata sulla vita familiare e, soprattutto per gli uomini, sullo studio dei testi sacri della Torah e del Talmud presso la yeshiva, la scuola religiosa. Le donne sono escluse da tutto questo. Seguono lo tzniut, uno stile di vita modesto, umile e pudico ancor più rigido di quello riservato agli uomini.
Questa è l’ambientazione di Kadosh, film di Amos Gitai che chiude la trilogia che il regista dedica con amore al suo paese, Israele, e alle incoerenze delle sue grandi città: la laica Tel Aviv (L’inventario), la tollerante Haifa (Giorno per giorno) e la “Città Santa”, l’ortodossa Gerusalemme (Kadosh). Il film che chiude la trilogia è un melodramma, tragico e delicato, che ha come protagonisti, Meir e Rivka. I due giovani hassidim si amano con rispetto e sincerità, ma vivono la sventura della sterilità. Nonostante i dieci anni di convivenza, i ripetuti tentativi, e malgrado l'osservanza delle leggi della purezza (il bagno di purificazione necessario prima dell’accostamento) non riescono ad averne. Ciò provoca dolore in tutti i membri della famiglia, ma in modo speciale nella protagonista: “A volte penso che io non soffro per la sterilità. Io soffro per la vergogna. Mi basta lo sguardo di mia madre per capire che si vergogna di me. Anche Meir si vergogna di me”.


Kadosh
(Webphoto)Non avere figli per una donna della comunità chassidica è come vivere nel peccato, è ritenuta una maledizione e può comportare legittimamente il ripudio. “Una donna senza figli e come una donna morta”, dice la lettera anonima ricevuta da Rilka, frase ripresa dal Talmud. Se Rilka è la donna devota e sottomessa, Malka, la sorella più giovane, è invece la coscienza critica. Deve sposare l’uomo assegnatole dalla comunità, e per tradizione talmudica non può sottrarsi a tale decisione. Ama però Jacob, con il quale ha un rapporto che va oltre la semplice simpatia. Yussef, il suo promesso sposo, è un perfetto esemplare di hassid, ma è violento persino quando si unisce a Malka durante la prima notte di nozze, e per renderla obbediente la punisce a colpi di cintura inveendole contro quando lei scappa ribellandosi alla sua prepotenza.
Il dramma giunge al culmine quando Rilka scopre di non essere sterile (“Per quel che ti riguarda è una bella notizia - le dice la ginecologa - ma certo nel tuo caso non so se ti aiuterà. Tu puoi avere figli”). Ciononostante viene ripudiata dal marito che continua ad amarla, ma non vuole accettare la sua condizione di impotenza: “Se un uomo muore senza procreare strappa le pagine della Torah, Meir”, gli dice il padre (rabbino) per convincerlo al ripudio. Malka, invece, decide di abbandonare la sacra Gerusalemme con le sue rigide regole, incitando anche Rilka a scappare. “Bisogna scappare, non stiamo bene per niente. Fuori c’è un altro mondo. La nostra comunità non è il mondo”. Ma è consapevole del fatto che non può fare nulla di fronte al dramma della sorella che si è abbandonata alla depressione e alla pazzia.
Kadosh non è un pamphlet polemico. Gitai ha voluto ritrarre una realtà in cui la condizione sociale è fortemente condizionata dall’integralismo delle regole. La chiave di lettura sta nella preghiera di berakah che apre il film in quel piano-sequenza fisso in cui Meir si sveglia e si veste benedicendo “l’Eterno nostro Dio” che tra le altre benedizioni “non lo ha creato donna”.


La formalità rigorosa dell’osservanza è sì sincera, ma va oltre ogni manifestazione di amore. La concezione estremamente subalterna della donna, sottomessa al marito, è anche manifestazione alla volontà di Dio, ma in second’ordine è sottomissione alla volontà del rabbino che decide le sorti di una unione sino alla possibilità del ripudio: “Sai che il compito di una figlia di Israele è mettere al mondo dei figli, mettere al mondo degli ebrei e permettere al marito di studiare. Dio ha creato l’uomo per studiare la Torah. La donna partecipa con saggezza al compimento della Torah. Il suo compito è tenere pulita la casa, preparare i pasti, e soprattutto allevare i propri figli. La sola gioia di una donna è allevare i propri figli. Capisci Meir, è la nostra forza”.
Il film è pervaso dalla rassegnazione e dal sacrificio sottomesso di Rilka e della madre, a cui è speculare la ribellione di Malka. Film quasi documentaristico, scarso di dialoghi, fotografato da Renato Berta, con inquadrature fisse, primi piani o sequenze lente, spesso ferme e ravvicinate come il cinema delle origini, e con un ritmo monocorde, dove però prende potenza l’immagine al punto di convertirsi come icona universale di un dolore soggiogato e remissivo, ma non per questo soffocato nei sentimenti e nella passione amorosa che fa scegliere strade opposte di donazione o ribellione.
In fondo, Gitai racconta il quotidiano di queste eroine dell’amore in un ambiente asfittico, chiuso culturalmente e umanamente, dove si è rispettate più che amate. È sincero però il pianto disperato di Meir, consapevole della morte della donna che ama, a cui si rivolge ripetutamente con una espressione cristica: “Rilka alzati”…