"Non mi sono mai ritenuto adeguato per fare l'attore, ero timido e riservato, con dei momenti in cui scattava l'imitazione. Ho cominciato facendo teatro a livello universitario, mio fratello sempre credeva in me. Io no. Ma sul palcoscenico diventavo un po' Mister Hyde. Luca (Verdone, ndr) mi faceva fare il protagonista di cose molto serie. Ricevevo complimenti dal pubblico, ma erano soprattutto amici. Una sera si ammalarono quattro attori, perché il teatro era molto freddo. In un momento di pazzia gli dissi: 'te li faccio io tutti'. Riusciì a sostituirli, il pubblico apprezzava molto e aumentava di sera in sera. Ritornarono gli attori e non li volevamo più perché funzionavo meglio io”.

Arriva Carlo Verdone al Lecco Film Fest, in dialogo con Valerio Sammarco e Marina Sanna, in una Piazza Garibaldi stracolma – “Sono colpito dalla signorilità degli abitanti di Lecco. A Roma quando mi chiedono l’autografo mi danno sempre pure una pacca sulla spalla" scherza – ed è una cascata travolgente di ricordi, volti, aneddoti, personaggi.

Piazza Garibaldi per Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)
Piazza Garibaldi per Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)

Piazza Garibaldi per Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)

Si parte dal battesimo della sua attività da regista e da un episodio traumatico: "I primi film erano molto romani, poi ho cominciato a muovermi fuori regione, con film come Io e mia sorella, introduzione al mio film più importante da regista: Compagni di scuola. Per farlo mi sono preso 500 parolacce dal produttore Cecchi Gori. Era un copione di 230 pagine, quando glielo portai lo fece cadere sul tavolo. ‘Ma questo l'è un copione verboso’ (lo imita in toscano, ndr). ‘Mario devi leggerlo, l'ho scritto col cuore’ risposi io. ‘Torna domani’ rispose. Il giorno dopo tornai. Mi fa ‘Hai scritto una stronzata, 230 pagine verbose, sarà un disastro’. Mi lanciò contro il copione, le pagine tutte sparse volarono per la stanza. Un’umiliazione incredibile. ‘Ormai l'hai scritto, ma prenderemo sberle da tutti. Diciotto attori nello stesso film è una carognata’, mi disse. Mentre raccoglievo le pagine una alla volta, – continua Verdone – lui, colto dalla pietà, col suo culone e il sigaro mi aiutava e mi dava le pagine, sembrava la tombola”.

Ma l’episodio non finisce qui: “Quando venne a vedere il film, si sedette da solo in prima fila col sigaro, e non rise mai per tutta la durata della storia. Alla fine si alzò e mi fece: ‘Mi freghi sempre, li giri meglio di come li scrivi’”.

Carlo Verdone sul palco di Piazza Garibaldi con Valerio Sammarco e Marina Sanna (foto di Stefano Micozzi)
Carlo Verdone sul palco di Piazza Garibaldi con Valerio Sammarco e Marina Sanna (foto di Stefano Micozzi)

Carlo Verdone sul palco di Piazza Garibaldi con Valerio Sammarco e Marina Sanna (foto di Stefano Micozzi)

Altro personaggio iconico, legato al suo cinema è Sora Lella: "Questa matrona romana simpatica, saggia, scoglionata, era l'essenza della romanità. Un giorno, sul set, un macchinista le disse: ‘A Sora Le’, ma ci farebbe due spaghi alla carbonara?’. Lei fece carbonara e bucatini per tutti per giorni. Un attore o un regista, però, non deve mangiare pesante tra una scena e l’altra, – continua il regista romano – perché sei appesantito, annebbiato, perdi il ritmo. Così finivamo sempre in straordinario. A Cecchi Gori arrivò la notizia; venne sul set e rimbrottò tutti. ‘Dottore lei c'ha ragione, ma chiedono alla signora Fabrizi di fare gli spaghetti alla carbonara’. E Sora Lella: ’Dottore guardi non lo faccio più, ma ci sono rimasti solo questi, due forchettate. Se li assaggi. dottò’. Se ne mangiò due piatti. Insomma, dopo cinquanta minuti di pausa, sul set erano tutti addormentati, compreso Mario Cecchi Gori".

Tra risate e ricordi, si torna al momento in cui parte tutta la carriera: "Nel 1970 mio fratello Luca faceva dei piccoli documentari con una macchina in Super 8. Io frequentavo il cineclub a Trastevere che proiettava film underground sperimentali. Così ebbi voglia di sperimentare anch'io, ma Luca non mi voleva dare la cinepresa. Seppi, però, che Isabella Rossellini voleva vendere la sua Bolex per settantamila lire. Allora chiesi a mio zio un contributo, a mio padre, a mia madre, piano piano arrivai a settantamila. Con la Bolex feci dei film sperimentali, immagini deformate con musiche elettroniche di Maderna, come Allegoria di primavera e Elegia notturna. Prendevano vita dal tramonto fino all'alba. Erano dei poemetti visivi, un po' psichedelici, senza battute. Mandai Elegia notturna a un concorso importante a Tokio, dopo 25 giorni arriva un telegramma: avevo vinto il primo primo premio, la cosa mi riempì di gioia. Mio padre, allora, disse: ‘Domani chiamo Rossellini, sentiamo un parere autorevole’. ll regista gli dà l'appuntamento due giorni dopo. Vado con i tre film: entro in una stanza enorme, luminosa, da vecchio edificio fascista in architettura razionale. Entra Rossellini con un profumo e una Chesterfield senza filtro, accesa, in bocca: ‘Non abbiamo tempo per tutti e tre. Scegli quello più significativo’ mi dice. ‘Presidente c'è troppa luce qui’, feci io. ‘Questo è il mio studio e si vede qua’, disse. Presi un proiettore e lo piazzai vicino alla parete, mentre il mio film diventava piccolo come un francobollo del Nicaragua. Rossellini si piazza a un palmo dal muro. Dalla finestra, un raggio di sole lo pigliava in pieno. Allora montai sul davanzale non visto e cercai di colpire il raggio. A un certo punto lui mi vede e mi dice di scendere. Alla fine, mi giarda e mi fa: 'Non male. Si vede che ti piace L'eclisse, Il deserto Rosso’. Io non li avevo mai visti, e subito dico: 'Molto maestro, molto!'. ‘Fai la domanda per il Centro Sperimentale’ mi rispose. Feci domanda, entrai e fui suo allievo".

Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)
Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)

Carlo Verdone (foto di Stefano Micozzi)

Lo scavo al passato non è finito qua. C’è spazio anche per i primi passi da attore, anzi da imitatore di caratteri: “C'era il teatro Alberichino a Roma, tempio dell'underground dove trovai un mio amico che mi pregò di fare le imitazioni una sera a cena. Nel mentre, venne il capo del teatro e mi disse di affittarlo per delle serate. Io non volevo, ma mia madre, che aveva capito tutto: 'falli Carlo, falli!', mi disse. A otto giorni dalla prima, a mezzanotte cominciai a scrivere il primo monologo, ma prima presi un ansiolitico. Così nacque il monologo del parroco di campagna. E così vennero fuori tutti gli altri. Per Stefano di Marisol, per esempio, mia madre mi diceva che c’era un bambino al primo piano che voleva giocare con noi. Un giorno squilla il campanello, vado ad aprire e trovo un ragazzetto piccolo con un vocione tremendo, da uomo. Così è nato tutto".

Verdone torna, poi, al regista di Roma Città Aperta, cui lo lega anche un altro, tragicomico ricordo: “Nel 1972 gli studenti del Centro Sperimentale venivano da Autonomia Operaia, Lotta Operaia, dal Partito Comunista – continua Verdone –, era una classe pronta alla contestazione. Tutti coi capelli alla Jimi Hendrix. Nella prima lezione, Rossellini parlò degli obbiettivi Panavision creati per un satellite, che sarebbero stati utili per il cinema. La seconda e la terza pure. A un certo punto, il più tremendo di tutti sbotta: 'Ha rotto er c***o questo coi teleobiettivi'. Ma Rossellini continuò. ‘Si ma noi vogliamo parlare del valore sociale di un film per le masse meno abbienti’ fece un altro (imita l’accento, ndr). Al che, il primo che lo aveva contestato, d’improvviso si voltò e fece un peto in faccia al Maestro. Noi eravamo distrutti, ma Rossellini aveva sentito tutto: dopo un minuto intero, si alzò, buttò la Chersterfield e disse: ‘La lezione finisce qui e non ce ne saranno altre".

Gianluca Arnone e Carlo Verdone (foto di Monica Fagioli)
Gianluca Arnone e Carlo Verdone (foto di Monica Fagioli)
Lecco Film Fest 2023, le foto della quinta e ultima giornata

Verdone, però, rifiuta una filiazione con il neorealismo: "Non so se posso essere accostato a quei grandi registi. Anche io sono stato un pedinatore di romani, andavo in cerca di racconti. Vedevo un apparato umano molto interessante, pieno di megalomanie e fragilità. Sono diventato un imitatore di caratteri ora di questo, ora di quell'altro personaggio. La gente più anonima e più grigia mi fa divertire molto".

Dal padre del Neorealismo, a quello di sangue. Altro ricordo, altro aneddoto: "La sera prima della presentazione del libro – Il cinema neoralista di Mario Verdone, Treccani Libri (ndr) – di mio padre che ha due inserti, uno mio e uno di mio fratello Luca, al Salone del Libro di Torino, ho fatto un sogno tragico: mio padre mi svegliava e mi diceva: 'Come ti sei permesso a mettere la firma su un libro che ho messo io? Hai sbagliato. E hai fatto pure arrabbiare Rossellini perché non gli hai citato Germania, Anno Zero’. Mio padre appare spesso nei sogni perché mi manca molto: è stato fondamentale per me".