PHOTO
Diane Keaton in 3 donne al verde (2008), @Webphoto, © 2007 MMoney, LLC. All Rights Reserved.
“La vita è strana. Credi di sapere cosa sia, ma non è affatto così. Va solo su e giù, a caso”.
Ci vorrebbe una delle sua frasi-tipo, una frase come questa, per salutare degnamente Diane Keaton. Se n’è andata a 79 anni nella sua casa di Los Angeles, lasciandoci con la sensazione che, nel grande caos della vita, lei avesse trovato almeno un modo ironico per starci dentro.


Amore e guerra (1975) @Webphoto
Nata Diane Hall nel 1946, figlia di un ingegnere irlandese e di una madre fotografa dilettante, ha passato l’adolescenza tra chiese metodiste, spettacoli scolastici e un’inclinazione precoce per la scena. Quando si trasferisce a New York a diciannove anni per studiare recitazione, cambia cognome (c’era già un’altra Diane Hall) e comincia a inseguire il sogno con una tenacia tranquilla.
Nel musical Hair si fa notare per un gesto quasi rivoluzionario: fu l’unica del cast a rifiutare la scena di nudo collettivo. Una scelta che diceva già tutto: anticonformista sì, ma a modo suo.
Da lì, la carriera sarebbe decollata in un percorso che è una piccola grande storia del cinema americano: Il padrino, Io & Annie, Reds, Il padre della sposa, Tutto può succedere, Book Club. In ognuno, Keaton ha portato la stessa cifra: un’ironia fragile, un modo di parlare che inciampa senza cadere, uno sguardo che sembra chiedere scusa mentre lancia il suo aggraziato guanto di sfida al mondo.


Woody Allen la scopre a teatro e la trasforma nella sua controparte ideale: una musa, una complice.
“Diane è il più grande amore della mia vita”, dirà lui anni dopo.
Lei rispondeva sempre con più pudore: “Woody mi faceva ridere, e questo bastava”.
Insieme hanno girato otto film e riscritto la grammatica della commedia americana. Io e Annie le valse l’Oscar nel 1978 e le diede anche un’identità cinematografica che le sarebbe rimasta addosso come una seconda pelle: quella della donna brillante, un po’ nevrotica, molto sincera.


Manhattan (1979) - @Webphoto
Ma la Keaton del Padrino non era meno vera. Coppola la sceglie per interpretare Kay Adams, la fidanzata “normale” di Michael Corleone, e su quello sguardo smarrito – mentre la porta si chiude – chiude anche il film. Il moral center della saga, come la definiranno i critici americani: la coscienza che resta fuori dal potere.
Poi vennero Reds con Warren Beatty (con cui ebbe anche una storia), In cerca di Mr. Goodbar, La stanza di Marvin accanto a Meryl Streep, e Tutto può succedere con Jack Nicholson.
Non si è mai sposata, ma ha adottato due figli, Dexter e Duke. “La maternità mi ha cambiato più di qualsiasi film”, ammise.
Era spirituale, più che religiosa. Da ragazza frequentava la chiesa cattolica del padre: “Il Paradiso? Credo sia una metafora. Però mi piace pensarci”. Nel 1987 dedica alla questione un documentario, Heaven, un collage di interviste e materiali d’archivio su cosa pensano gli americani della vita dopo la morte: un film surreale, tenero, e molto suo.


Come regista ha sempre scelto i margini, gli affetti laterali. In Eroi di tutti i giorni (1995) racconta un bambino alle prese con la perdita del padre; in Avviso di chiamata (2000) tre sorelle attorno a un letto d’ospedale, mentre lei, Meg Ryan e Lisa Kudrow litigano e si perdonano. “Non amo i film che urlano – diceva – preferisco quelli che parlano piano, ma restano”.


Meg Ryan, Diane Keaton, Lisa Kudrow in Avviso di chiamata (2000), @Webphoto
Sul set era precisa, ironica, un po’ maniaca.
Steve Martin la ricorda così: “Arrivava con dieci idee per la stessa scena, e nove erano migliori della mia”.
Jane Fonda, con cui ha girato Book Club, l’ha salutata scrivendo: “Diane aveva un’energia contagiosa, e la capacità di non prendersi mai troppo sul serio”.
Meryl Streep è andata anche più a fondo: “Diane vive in ogni donna che ha osato essere diversa”.
E Bette Midler, amica di sempre: “Una forza della natura, con un cappello più grande di lei e un cuore ancora più grande”.
Il cappello. Quel cappello a tesa larga, la giacca oversize, la cravatta da uomo: nessuno come lei ha trasformato il guardaroba in linguaggio. Il suo look ha fatto epoca, come Katharine Hepburn prima di lei. Ma Keaton ci ha aggiunto il dubbio, la goffaggine, la voglia di non sembrare mai finta.


Book Club - Tutto può succedere (2018) - @Webphoto
(Photo credit: Melinda Sue Gordon)La sua recitazione nasceva da lì: dall’imperfezione. Non si imponeva mai. Parlavano i silenzi, i piccoli scarti, le risate improvvise.
“Non voglio essere la più brava”, disse una volta, “voglio essere quella che prova ancora a capire”.
Quattro nomination all’Oscar, uno vinto, un AFI Lifetime Achievement Award nel 2017 consegnato proprio da Woody Allen (“Sembra la donna che viene a portare via Blanche in Un tram chiamato desiderio”, scherzò lui).
Ma il suo vero riconoscimento è l’impronta lasciata nel costume: la libertà di essere stralunati, l’idea che l’intelligenza può essere sexy e la goffaggine, finalmente, un talento.
Diane Keaton non ha mai recitato per essere amata. È stata amata perché sembrava non recitare affatto. E forse è questa la sua lezione più semplice, più duratura: si può essere una star rimanendo una persona. Anche con i bottoni sbagliati, il cappello storto e una risata che arriva sempre un secondo dopo.