“Ero diventata il mio dolore”. 1 gennaio 1856, Abigail (Katherine Waterston) affida ad un diario gli aspetti più intimi, emotivi della sua esistenza. Donna di fatica nella fattoria che divide con il marito Dyer (Casey Affleck), sperduta nelle valli del Midwest, sa che oltre al lavoro quotidiano non ci sarà più spazio per molto altro nella sua vita: la morte della figlioletta Nellie ha fatto sprofondare tutto (matrimonio compreso) in nulla più che un meccanismo di arida sopravvivenza.

In maniera del tutto imprevista, il suo stato d'animo cambierà quando incontrerà Tallie (Vanessa Kirby), donna estroversa di straordinaria bellezza, appena trasferitasi con il marito Finney (Christopher Abbott) in una fattoria nelle vicinanze. Le due provano a stringere una relazione, riempendo un vuoto nelle loro vite di cui non conoscevano l’esistenza.

Un bellissimo titolo, The World to Come, per un bellissimo film: di rara eleganza e capace di altrettanta tensione, il lavoro di Mona Fastvold (tratto dall’omonimo racconto di Jim Shepard, che firma lo script con Ron Hansen) stupisce per la cura formale – mai derivativa, mai smaccata, lontana dalla maniera – con cui “ingabbia” il progressivo librarsi di un sentimento, in un contesto – temporale, ambientale – ostile e chiuso.

The World to Come

Nel corso di un inverno rigidissimo (la sequenza della tempesta di neve toglie il fiato, altrettanto l'incendio che distrugge una casa più avanti) prende forma l’utopia di una nuova possibilità per due donne imprigionate: l’incontro, la parola, gli sguardi, i gesti, ogni cosa suggerisce l’appiglio di un’emozione che le due protagoniste, straordinarie, Katherine Waterston e Vanessa Kirby, restituiscono con il sussurro, la “gioia e lo stupore”.

Contrappuntato dal main theme musicale di Daniel Blumberg (songwriter 30enne già autore di due album ben più che notevoli, Minus e On & On), The World to Come ha il pregio di soffermarsi con classe cristallina su una storia e su due personaggi che sarebbero potuti scivolare con facilità nelle sabbie mobili che ultimamente hanno già inghiottito film-manifesto patinati o urlati, slabbrati e studiati a tavolino.

Ogni cosa, dallo script alla fotografia (di André Chemetoff), dal montaggio (di Dávid Jancsó) alla scenografia (di Jean Vincent Puzos) – location meravigliose, nelle valli della Romania – oltre all’ennesima grande prova tutta in sottrazione di Casey Affleck (anche produttore), esalta questa costante contraddizione tra emozioni altalenanti, sorrisi interrotti, frammenti di un diario che a volte anticipa la visione, in altre circostanze la riempie, in ogni modo ne accompagna l’incedere, tra vacche da mungere, camini che riscaldano il gelo di sensazioni cristallizzate, cene da preparare. E un amore da vivere. Di "gioia e stupore", furtivo quanto si vuole, ma mai disperato, vero.

 

Che a noi è concesso osservare “fisicamente” solo attraverso le immagini di un ricordo (altra scelta meravigliosa), quando ormai è tutto perduto. Ma non in maniera irrimediabile, basterà stendersi sul tetto a rimirare il cielo: Il mondo che verrà.