“La speranza è una questione politica. Se la gente confida di cambiare le cose va a sinistra, altrimenti è preda del cinismo, della disperazione. E passa a destra”.
Ottantasette anni il prossimo 17 giugno, Ken Loach smentisce che si tratti del suo ultimo film, e con The Old Oak in cartellone a Cannes 76. punta alla terza – mai centrata da alcuno - Palma d’Oro dopo Il vento che accarezza l’erba (2006) e Io, Daniel Blake (2016).

Insieme al fedele sceneggiatore Paul Laverty, non smette di lottare per un mondo migliore, di accorciare le distanze tra il possibile e l’auspicabile, di credere che al cospetto degli ultimi il problema sia la competizione viziata, ossia il capitale.

Focali corte, umanità larga: il film scritto dalle storie dei testimoni, dal lascito degli incontri, dal sodalizio con Laverty, dal comune - attributo loachiano in purezza – senso dell’ardore (politico) ritrova un autore in senso classico, quale detentore di una poetica, combattiva e misericordiosa, e di uno stile, piano ma non sciatto. A proposito di misericordia, l’occorrenza dei crocefissi al collo e del discorso più speranzoso in cattedrale fa strano, ma nemmeno troppo: è il campo largo di Ken il Rosso, ché dalla parte giusta più si è e meglio si sta.

In una non precisata, ovvero inventata per collettanea, località già mineraria e socialmente svantaggiata nell’Inghilterra nordorientale, il proprietario TJ Ballantyne (Dave Turner) fatica assai a tenere aperto il pub che dà il titolo, “l’unico spazio pubblico” rimasto alla cittadinanza, ma la situazione precipita con l'arrivo nel villaggio dei rifugiati siriani, tra cui la giovane fotografa Yara (Ebla Mari) che ha imparato l’inglese nei campi profughi. Il vessillo che i siriani donano a TJ recita solidarietà, forza e resistenza, “parole del nostro tempo” cui Ken il Rosso accosta altre tre nella tradizione dei sindacati americani: “Educare, agitare, organizzare, e l’ultima è la più importante. Se non ci organizziamo, non vinciamo”.

TJ ha una ex moglie e un ex figlio, un cane che l’ha miracolosamente inibito dal suicidio, e una residua speranza che si affievolisce ogni giorno che passa: i clienti abituali, persino gli amici sono razzisti, o solo incattiviti, e “domani è un giorno migliore” stinge su un calendario vecchio. Yara e i familiari, che rispolverano le sinergie degli scioperi e delle feste dei minatori, lo ritrovano nella solidarietà, nell’aiuto degli altri e dunque di sé: non durerà? O forse, convergenze parallele, sarà il lutto a riguadagnare l’ultima speranza?

Sorry We Missed You (2019), vocato alle disforie della gig economy, era il film precedente, e quello che in questi quattro anni abbiamo pensato di Loach: The Old Oak, che ben gli si attaglia, lo ritrova, sì, dalla parte giusta, e con un cinema avvertito ma non vinto dell’attualità, che tra diminuito potere d’acquisto, guerra tra poveri, lacerazioni del tessuto sociale e sbandate a destra Ken & Paul non perdono di vista e di cura.

I dialoghi tra Yara e TJ imbarcano didascalismi, piegano sull’agit-prop, l’emotività sfiora con la virata animale persino il ricatto, però sono vizi di forma, non difetti sostanziali: ha già detto, e mostrato, molto, Ken Loach, ma non ha finito.

Si chiama, anche questa, speranza.