I crimini, ecco, parliamone. The Last Days of American Crime ne commette uno dei peggiori per un film: dura troppo. Anzi: più di troppo. Si sentono tutte, ma proprio tutte, le due ore e mezza di questo pasticciaccio extralarge che ha la maledetta ambizione di narrare le paranoie contemporanee e annunciare quelle del futuro prossimo (le stesse di sempre, in realtà) attraverso l’ormai consunto filtro della distopia. Distopia nel 2020? Avanguardia pura.

All’origine c’è il graphic novel di Rick Remender e Greg Tocchini datato 2009, adattato da Karl Gajdusek che in curriculum ha Oblivion e la prima stagione di Stranger Things. Nel titolo c’è tutto: un nuovo ordine mondiale è sul punto di eliminare per sempre la criminalità, grazie a un meccanismo di controllo che toglie all’individuo la libertà individuale, dunque anche la possibilità di commettere reati.

Siamo nei giorni che precedono il grande cambiamento. Divampano i fuochi per strada, il sangue sgorga a ettolitri, la polizia agisce impunita, i notiziari raccontano una società allo sfascio. L’imminente fine del crimine innesca l’esplosione del crimine stesso. E per i criminali, prossimi alla disoccupazione, sono gli ultimi giorni disponibili per fare il colpaccio: un furto da un milione di dollari.

 

Il tempismo piuttosto infelice con cui Netflix pubblica in tutto il mondo, nei giorni dell'uccisione di George Floyd, questa proiezione dell’America (leggi: mondo, ça va sans dire) è forse l’elemento più interessante di The Last Days of American Crime. Che, tuttavia, non appartiene al film in sé ma alle congiunture della cronaca. Più che intercettare qualcosa nell’aria, il film si ritrova al crocevia di ciò che accade negli Stati Uniti del tutto impreparato, confuso, stonato.

Fuori tempo massimo e fuori dal mondo, non coglie nemmeno nel personaggio sbalestrato di Michael Pitt l’occasione per spingersi verso un ipotetico versante grottesco che avrebbe reso il film più saporito. Una dimensione comunque non alla portata del suo regista, Olivier Megaton (pseudonimo molto sobrio che sostituisce l'originale Fontana), uno incapace di ironia che si prende sul serio senza pudori.

Non si pretendeva certo un’interpretazione secondo il cinema di genere delle ferite che squarciano la società americana. Ma nemmeno un grosso, gonfio, ridondante, spesso incoerente spettacolone che per di più nemmeno intrattiene.

 

Cresciuto alla scuola di Luc Besson, Megaton ne ha preso gli aspetti peggiori. Alla prova del nove di una carriera finora all’ombra del maestro (ha diretto Colombiana e i sequel del franchise Taken), sfoggia una tecnica più tronfia che virtuosistica, con la pretesa di immergere lo spettatore in un vortice disorientante che si rivela invece monotono e asfissiante.