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L’impronta è nel dispositivo, con la telecamera che diventa confessionale e la fattura delle immagini a indicarci il periodo storico (gli anni Novanta) e, di riflesso, la condizione umana. Le riprese in interni, con camera fissa su facce spaventate dalla paura di farsi trovare in fallo, testimoniano la tensione emotiva che acuisce il clima claustrofobico, la consapevolezza che ogni parola potrebbe essere usata contro chi l’ha pronunciata all’occhio che uccide, acceso come in uno di quei reality show all’epoca in ascesa o – ed è una chiave di lettura più intrigante – negli horror found footage sempre in àuge in quegli anni.
È nella forma più che nel contenuto – decisivo il contributo del direttore della fotografia Robrecht Heyvaert che ricorre anche alla Betacam – che Steve si rivela, muovendosi tra la cronaca e l’allucinazione, addossandosi al corpo sempre più sofferto e tormentato del preside di un istituto di recupero. Nelle ventiquattro ore attraversate dal film lo troviamo schiacciato dalle responsabilità, impegnato nella lotta contro l’imminente chiusura della struttura e un equilibrio mentale sempre più precario, ostaggio dei farmaci e delle ansie. Dovute, peraltro, a un adolescente problematico, che in tutti i modi prova a non cedere all’impulso autodistruttivo e alla spirale di violenza.


L’onomastica conta: Steve prende il nome dal preside ma è ispirato al bestseller di Max Porter (in Italia lo pubblica Sellerio) che si intitola Shy, come l’allievo. È uno slittamento di prospettiva scelto dallo stesso Porter, anche sceneggiatore di questo film focalizzato sullo sguardo spaesato e sui tormenti montanti nel volto sofferto di Cillian Murphy, che a sua volta ritrova il belga Tim Mielants che l’aveva diretto nel cupo Piccole cose come queste. Per lo scrittore, è un’occasione per osservare gli eventi da un’altra prospettiva, piombando soprattutto nel paesaggio interiore del preside e osservando Shy da fuori, come fosse uno specchio in cui riconoscere i nostri abissi.
L’impressione è che Mielants sia più interessato al come che al cosa, delegando il peso del “tema” (la salute mentale) alla storia e al tour de force di Murphy, così cosciente di portarsi addosso il film di cui è titolare – nonostante l’ottima prestazione di Simbi Ajikawo e le partecipazioni di Tracey Ullman ed Emily Watson – da manifestare fisicamente la fatica del vivere (le dipendenze), la convivenza con i fantasmi (la madre), smarrimento nel labirinto spaziale che proietta quello mentale (la dimensione è teatrale). Più delle emozioni e delle riflessioni, restano la forma e i formati. Netflix.