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Kjærlighet
La volitiva dottoressa Marianne (Andrea Bræin Hovig) e il compassionevole infermiere Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) approfondiscono la conoscenza incontrandosi nottetempo sul traghetto: il giovane uomo la mette a parte degli incontri omoerotici fortuiti che ivi sperimenta, traendone conversazioni non banali e intimità non peregrina. Sicché Marianne si ingolosisce, e mettendo in discussione le convenzioni sociali si dà alla medesima possibilità: funzionerà?
Secondo capitolo dell’intesa trilogia Sex Drømmer Kjærlighet, Kjærlighet, ovvero Love, è diretto dal norvegese Dag Joahn Haugerud: inopinatamente in Concorso, è un confesso “film utopico”, giacché “riguarda il tentativo di raggiungere l’intimità sessuale e mentale con gli altri senza necessariamente conformarsi alle norme e alle convenzioni sociali che governano le relazioni”.
Marianne, Tor e gli altri compagni d’avventura – per loro, sventura per noi – ci ammorbano l’anima, e ci appesantiscono le pudenda, con un didascalico, saccente, performativo e iterato dialogo, chiamiamolo così, su orientamento sessuale, dignità di genere e altre evenienze sotto la cintola: ne viene un involontario quanto efficace invito all’astensione, la castità, l’eremitaggio e l’ammutolimento – laddove si vorrebbe incitare all’ammutinamento dalle prescrizioni borghesi.
“Con Kjærlighet, e l’intera trilogia, il mio obiettivo principale è stato quello di far capire che è possibile immaginare nuovi modi di pensare e comportarsi”, ma - dobbiamo rilevare - in campi altri dal cinema: Love è sottilmente borioso, inguaribilmente pedante, manifestamente inadempiente.
Nel loro percorso di affrancamento dai vincoli sociali in tema di relazioni sessual-sentimentali, Marianne e Tor incontrano maglioni tarmati, Birkenstock, cateteri, tisane e altri oggetti, per loro, di piacere, senza cavare un ragno dal buco, un’immagine degna di nota in due ore di film, una battuta da riportare a casa.
Anoressico, ovvero etimologicamente privo di desiderio, e perfino anodino, il disamorante spiegone Love ci ricorda come il cinema – almeno questo - non sia la vita, né il sesso un manuale d’uso. Affumicassero salmoni, che è meglio.