Lee Chang-Dong è cineasta maturo e ambizioso, anagraficamente più avanti con l'età della levata new age del cinema coreano abilmente distribuito in Italia. In Secret Sunshine, Lee sa far interagire magistralmente sia la teorica dinamica conflittuale tra fede e ragione dell'uomo a quella materiale della sopravvivenza quotidiana, quasi fosse un cineasta europeo o perlomeno occidentale. C'è, spiritualmente, più Moretti de La stanza del figlio o il Field di In the bedroom che il Kim Ki-duk di Ferro3 in questo Secret Sunshine inserito meritevolmente nel concorso cannense. Lee Shin-ae è una giovane vedova che si stabilisce con il figlio Jun a Myriang, una cittadina del Sud della Corea. Apre una piccola accademia dove insegna pianoforte ai bambini e cerca di inserirsi nel tessuto sociale del luogo. Ma l'inspiegabile rapimento di Jun e la successiva, repentina e tragica uccisione del bimbo la spingerà a cercare conforto in una comunità cristiana non ufficiale. Giocato sul continuo rilancio del binomio morte/rinascita, Secret Sunshine è un film sul dolore della perdita e sull'isolamento dell'individuo, costruito senza pensare troppo a vezzi stilistici e appoggiato drammaturgicamente alla nervosa e tesa recitazione di Jeon Do-yeon. Ne emerge un'attenzione bressoniana sull'umana sofferenza, per un cineasta che sa porre al centro della sua poetica, senza tanti fronzoli, i limiti dell'esistenza di una donna emarginata in epoca contemporanea.