Un'altra bella scoperta. Rengaine significa cantilena, solfa, tiritera, ritornello, tormentone. Rachid Djaïdani, padre algerino, madre sudanese, quarto figlio di undici (nove sorelle), muratore, piastrellista e parquettista, ex campione di boxe, attore per Peter Brook, attore per Kassovitz, romanziere (Boumkoeur, Mon nerf, Visceral), documentarista, ci mette nove anni, senza finanziamenti, per girare e finire Rengaine. Arriva alla Quinzaine e ha un applauso di venti minuti, segno che il film, senza perder tempo, in 75 minuti tesi e stringati (tirati fuori da un girato di 400 ore!) arriva a cuore pancia testa di tutti. Parigi, là dove le etnie si sovrappongono, si mescolano senza sciogliersi, si scontrano. Il maghrebino, musulmano e molto irritabile Slimane è il più vecchio di ben 40 fratelli 40. Il nero (anzi: ‘négro'), cristiano e troppo docile Dorcy vuole sposare Sabrina, una delle sorelle di Slimane. Slimane vuole trovare Dorcy e pestarlo, magari anche farlo fuori perché non sposi Sabrina. Scontro di fedi costumi tabù modi di vivere e pensare. Siamo nel pentolone del razzismo più radicato e insensato e siamo anche dentro a tanti di quei film multietnici che abbiamo visto in questi anni. Ma Rengaine non è multietnico come troppi altri film (che ormai finiscono per essere, il più delle volte, banali e consolatori). Uno: perché al conflitto arabi–neri si aggiunge un'ulteriore nota di colore religioso dato che Slimane non può vedere i neri cristiani ma ha una relazione con una ragazza ebrea, relazione che tiene ben nascosta. Due: perché bisogna aggiungere anche la mamma nera di Dorcy, che fa la pettinatrice e che non vuole che il figlio sposi una bianca perché lei i nipotini li desidera proprio nerineri. Tre: perché le discussioni, anche molto accese, tra i diversi gruppi contrapposti sono piene di fantasiose e popolari sciocchezze, tanto che si ride molto dei pregiudizi degli uni, degli altri e degli altri ancora e il film si riempie imprevedibilmente di humour. Quattro: perché il percorso narrativo è frammentato e spiazzante, visto che si passa da Slimane in cerca di Dorcy, a Dorcy che cerca lavoro come attore, con i due itinerari costellati da tanti incontri, ora caotici, ora distesi, ora silenziosi, ora parlatissimi. Cinque: perché Dorcy un lavoro come attore lo trova ed è un momento incredibile, che neanche Godard si è mai immaginato una cosa simile (premio per la migliore scena a sorpresa e a effetto di tutto il festival). Sei: perché uno dei 39 fratelli di Slimane è omosessuale ed è stato da tempo scartato dalla famiglia. Sette: perché Djaïdani gira come un Cassavetes della banlieue, sta addosso ai personaggi, frammenta le scene, eppure le sa tenere assieme con sicura precisione. Otto: perché il film-mosaico trova alla fine una perfetta ricomposizione, sia narrativa che emozionale, nella più che condivisibile invocazione a tutti gli dei clementi e misericordiosi, quali che siano i loro nomi, perché si mettano finalmente insieme al fianco di tutti noi. Film libero e scorretto religiosamente politicamente linguisticamente. Ha detto Djaïdani che la realizzazione “è stata un combattimento intenso che mi ha obbligato a superare ogni limite. Ho l'impressione di aver scalato l'Everest con un sacco di 50 kg sulle spalle”. Accogliamo Rachid Djaïdani, scalatore cinematografico autodidatta, nel novero dei registi che apprezziamo fin dal primo film.