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Raqmar
In un mondo che ha trasformato l’indipendenza in un genere se non proprio in un brand, è necessario stare dalla parte di un autore come Aurelio Grimaldi, uno che indipendente lo è per davvero e non per posa. Perché non si tratta solo di difendere chi lavora con un budget contenuto o addirittura minimo, ma di confrontarsi con una questione schiettamente politica: Grimaldi fa parte della nobile schiatta dei cineasti per cui tutto è politica, da come e perché si inquadra un volto a quando e se lasciare qualcosa fuoricampo.
E Raqmar, forse già condannato all’invisibilità considerando l’esiguo numero di sale, è un film che somiglia a pochi altri nel nostro panorama: dritto per come arriva al punto senza cedere alla retorica, pulito e aspro nella sua estetica senza fronzoli né ammiccamenti, realista per vocazione civile. Grimaldi crede ancora nel cinema come gesto sociale senza tuttavia proclamarsi capitano coraggioso e si inserisce nel nutrito e spesso abusato filone del film migrante utilizzando un’angolazione inedita, affrancandosi dal puro elemento cronachistico per restituire una storia veramente universale.
Raqmar è il villaggio arabo-berbero tra le rocce e il deserto del Sahara in cui tre italiani arrivano per proporre un contratto alle famiglie locali: l’assunzione dei figli a vantaggiose condizioni (paga alta rispetto agli standard, vitto e alloggio, lezioni di italiano). Ovviamente non si tratta di beneficenza o buona volontà: prima della visita alle loro famiglie, ai ragazzi è stato già spiegato che il loro lavoro consiste in rapporti con clienti, maschi e femmine, d’alto lignaggio. Parliamo di marchette d’élite, prostituzione messa a sistema, ma la possibilità di svoltare è più forte della morale: così i ragazzi sbarcano in un lussuoso residence di Genova e si uniscono a un gruppetto formato da asiatico-orientali e afrodiscendenti. Al centro del film c’è Hicham, riservato e gentile, disponibile e confuso: l’incontro con un anziano cliente lo spinge a cambiare vita, ma il destino non è dalla sua parte.


Raqmar
A trentatré anni dall’opera prima (La discesa di Aclà a Floristella), a trentuno dall’incredibile partecipazione in Concorso a Cannes (Le buttane) e a cinque dal precedente Il delitto Mattarella, Grimaldi fa un film che sembra contenerne tanti con compattezza narrativa, limpidezza estetica, stratificazione tematica. Parte da lontano, in una specie di preambolo bruciato dal sole e dalle ombre, quasi coltivando lo spaesamento del reportage.
Arriva vicino alle nostre case, squarciando l’ipocrisia oltre le stanze di lusso grazie all’ingresso di due personaggi chiave, l’ambigua padrona che dispensa crostate e sorrisi (la clamorosa Giuliana De Sio, sempre più incrocio tra Bette Davis e Laura Betti, scandalosamente ignorata dal nostro timido cinema borghese) e il laido e aitante braccio destro (Alessio Vassallo ha un pezzo durissimo che non si dimentica: le regole dell’approccio perfetto con i clienti). Si mette accanto ai personaggi e scopre una tenerezza mai affettata da piccolo melodramma quando entra in scena il grande Leo Gullotta, tra cene a lume di candela, scenari da cartolina e l’eco dei rapporti da tenere al buio.
E infine, senza anticipare troppo, fa piombare il pubblico nell’angoscia di una coazione a ripetere, un meccanismo perverso in cui l’occidente dei padroni – c’è l’Italia ma è un segno, l’immagine di un apparato – trionfa su chi sopravvive ai margini della vita. Tutto in meno di ottanta minuti con una precisione, una tensione, una profondità che rendono Raqmar un film da difendere con ostinazione.