Tre cose su Quell’estate con Irène, opera seconda di Carlo Sironi dopo Sole (European Film Awards 2020 per la miglior rivelazione), in anteprima mondiale al 74° Festival di Berlino nella sezione Generation.

La prima riguarda lo spazio, prevalentemente esterno: le protagoniste, Clara e Irène, che si incontrano per la prima volta durante una gita organizzata dall’ospedale che le ha in cura, cominciano a conoscersi – e a riconoscersi – in relazioni ai luoghi che esplorano. Hanno diciassette anni, Clara è diafana e timida e Irène sensuale e intraprendente, entrambe si portano dentro i segni di una malattia che sembrava sconfitta, hanno vissuto a metà.

Il loro womance si rivela in una piscina che evidenza i due caratteri (l’una resta a bordo a guardare, l’altra nuota e sfida l’apnea) e in una grotta dalle caratteristiche un po’ grottesche (l’allegoria è chiara) e si sviluppa in un altrove che riconfigura questi elementi: l’acqua che non è più circoscritta ma sconfinata, perché le ragazze scappano verso un’isola del Mediterraneo per vivere la prima estate “normale”; e le grotte, che siano accarezzate dalla luce diurna o perlustrate con una torcia di notte, e che sono sempre rifugi da un mondo che non conoscono. Il coming of age è limpido: due adolescenti evidentemente speculari e complementari si mettono alla prova e imparano a relazionarsi con estranei ignari del loro passato (e viceversa: “Abitavamo vicini e non ce ne siamo mai accorti”).

La seconda cosa ha a che fare con lo sguardo di Sironi, che sembra allineato su quello di Clara (il titolo è esplicito) e si plasma attraverso la progressiva padronanza dei mezzi artistici. All’inizio fa un ritratto di Irène, come se disegnandone il volto prendesse confidenza con la sua intimità (ma una dentiera da vampira sembra annunciare la sua inafferrabilità); poi comincia a riprendere le cose che vede, dai nuovi amici conosciuti al mare agli sconosciuti al bar del paese doppiati da Clara e Irène, quassi fosse un gioco per reinventare la realtà; infine, con la torcia nel buio, cerca il pezzo mancante, incarnato da una figura altra che forse esiste solo nel suo orizzonte dei bisogni.

La terza riguarda le interpretazioni di Noée Abita (ancora folgorante dopo Passeggeri della notte) e Camilla Brandenburg (vista nella quinta stagione di SKAM Italia), che hanno l’acerbità dovuta ai personaggi ma sembrano un po’ troppo stranianti rispetto al contesto. Non a caso, l’apparizione di Claudio Segaluscio è uno scarto notevole che dà respiro a tutto il film: Sironi lo conosce, l’ha fatto debuttare in Sole, tra i due c’è un’intesa palpabile ma c’è soprattutto un coefficiente di verità che Segaluscio garantisce grazie a una recitazione istintiva e credibile.

Sono scintille di un film in gloria dell’estate e del suo mistero (Éric Rohmer è una luce intermittente), in cui gli anni Novanta sono uno spazio più spirituale che nostalgico (il titolo di lavorazione era Truly Madly Deeply, come la canzone dei Savage Garden: “I’ll be your dream, I’ll be your wish, I’ll be your fantasy...”), permeato di quella sostanza di cui sono fatti i sogni (dunque i ricordi). Il rischio è di scivolare nella rarefazione di un palinsesto a tratti inesplorato, di rincorrere allegorie e metafore, di aver paura di volare davvero come fosse un gabbiano ipotetico.