Tre indizi fanno una prova: Alessio Cremonini è un ottimo regista. Perché in Profeti – dopo il David come miglior regista esordiente per Sulla mia pelle- tiene insieme documentario, indagine sociologica e drammaturgia (provate a citare altri registi italiani che lo fanno, senza Google), rincamminandosi sullo stesso confine orientale di Border, suo primo (semi-sconosicuto) lungometraggio.

Questa volta, però, protagoniste non sono due sorelle siriane, ma due donne sideralmente distanti, costrette dalla guerra a trovare un punto di incontro. La reporter italiana Sara (Jasmine Trinca) è in Medio Oriente per documentare la guerra, fin quando è rapita e incarcerata dall’Isis. In quanto donna è rinchiusa e nascosta in una coperta per potersi rivolgere agli uomini, da cui è seviziata per settimane, per poi essere consegnata all’enigmatica Nur (Isabella Nefar), una foreign fighter che, sposato un miliziano, è stata trasferita nel Califfato, intabarrata dentro casa mentre fuori la guerra imperversa. La donna ha una missione: convertire Sara, sua “ospite” per inglobarla nella guerriglia fondamentalista.

Tenendo fede alla sua indignazione civile e partendo dall’attualità, Cremonini torna a indagare -“il cinema per me è indagine” ci ha raccontato lui stesso- senza altezzosità, ma con piglio antropologico le conseguenze delle prigioni su individui isolati, accerchiati, destinati a soccombere alla coercizione di forze deviate (di polizia per Cucchi, ideologico-fondamentaliste per Sara). C’è sempre uno stato parassitario (lì pezzi di forza pubblica, qui l’ISIS), nei suoi film, che nega umanità all’umano. Il viaggio agli inferi della giornalista, qui, allora, vuol dire anche sottomettersi alle leggi dei guerriglieri e soprattutto dover fare tabula rasa dei pregiudizi occidentali, per entrare in sintonia con un’altra donna che ha dedicato senza remore la vita ad Allah.

Sceglie l'unità di luogo il regista, chiudendo dentro una casa-carcere Sara e Nur per sciorinare una storia di assedio psicologico. Fuori gli uomini sono bestiali, ma dentro la battaglia tutta al femminile è fatta di parole soppesate, silenzi gravidi di premonizioni e sensi, di presenze e assenze, di pieni e vuoti, di certezze e dilemmi, di occhi narrativi che definiscono lo spazio, collocano, a volte giudicano, altre assolvono, altre scoprono, altre ancora cercano una fuga. In un testa a testa così tensivo che assorbe su di sé secoli di schermaglie Occidente-Oriente, affidandosi a due attrici ispiratissime, la scrittura di Cremonini e Monica Zapelli dà il meglio di sé, in perfetto equilibrio tra radiografia dell’attualità e asciuttezza drammaturgica.

La regia, sempre in controllo della narrazione e del contesto, così pudica nell’accostarsi, tra una lenta zoomata e un primo piano intensivo, alle protagoniste, riesce a snocciolare un pregevole corollario di temi e dibattiti che a fine film rimangono più aperti che all’inizio: qual è il ruolo dell’Occidente di fronte a certi avvenimenti? Che posizione (e quindi sguardo) assumere verso il fanatismo armato? Che cosa significa essere giornalista e donna in Medio Oriente oggi? Come proteggere il diritto di cronaca? Attraverso quali strumenti fisici, politici, religiosi ribellarsi ai soprusi dell’uomo? Che cosa significa, da Occidentali, convertirsi all’Islamismo?  Dio è quello “sperante” di Stefano Cucchi, quello cercato nelle Bibbie sotto le macerie da Sara o quello introiettato e invocato continuamente da Nur? E se fossero, mutatis mutandis, tutti e tre?

A Cremonini, per fortuna, non interessa mettere in mano allo spettatore un pacchetto di verità, ma sedersi in sala a fianco a lui per riscoprire una parte di mondo deformata dai nostri pregiudizi. Vuole passare, insomma due ore a farsi cascate di domande, con l’unico obiettivo che a fine proiezione, debbano essere più di quelle che c’erano all’inizio.