Poor Things, ovvero povere creature. Il titolo viene dal romanzo di Alasdair Gray del 1992, ma queste povere creature siamo noi, noi maschi, travolti e irrimediabilmente sconfitti dall’autodeterminazione femminile di Bella Baxter, una straordinaria Emma Stone. È la sua seconda volta con Yorgos Lanthimos dopo La favorita (2018) e – la sua collega Margot Robbie non ne abbia a male – Povere creature!, Leone d’Oro a Venezia 80, candidato a undici Oscar e dal 25 gennaio 2024 nelle nostre sale, è tutto quel che Barbie non è riuscito a essere.

Un film dichiaratamente e persino forsennatamente a tesi, che del women’s empowerment fa alfa e omega, rinverdendo la creatura di Frankenstein e “piegandola” all’agenda femminista qui e ora: problema, s’intende solo per noi sesso debole, funziona, eccome. Perché spassoso e ironico, licenzioso e appassionato, massimalista e impietoso: non fa prigionieri, in una metà del cielo.

Victoria si butta nel Tamigi, è incinta. A riportarla in vita lo scienziato pazzo Godwin, per lei solo God, Baxter (Willem Dafoe), che le impianta il cervello del feto. Bella Baxter, la sua nuova identità, impara in fretta, trova la coordinazione e molto più: il desiderio di affrancarsi da God e scoprire il mondo là fuori. Fugge con Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un avvocato libertino che la inizia alle gioie del sesso (già l’autoerotismo era stato soddisfacente) e la porta prima a Lisbona, poi in crociera, insomma per il mondo.

Che non sta in una stanza, e nemmeno in una camera da letto: oltre il sesso Duncan non ha nulla da offrire, sopra tutto a chi persegue eguaglianza – oggi diremmo parità di genere – e emancipazione. Bella lo manda a sbattere, legge Emerson, vuole e prova a capire la natura del sesso, del denaro, del potere. Fa di testa propria, da “povera creatura” qual è: madre del suo cervello e anche figlia, se vogliamo, del suo cervello, resuscitata dal maschile deve trovare la piena espressione del femminile. Passerà da un bordello di Parigi, libera dai pregiudizi ma dentro il suo tempo, per fare ritorno al capezzale di God: il passato, proverbialmente, non passa, ma il futuro è suo, che prepara l’esame di anatomia – e seppur caprina, non sarà questione di lana.

Lanthimos lo conosciamo, e spesso apprezziamo: qui miscela grandangolo e CGI gotica, viraggi impossibili e eredità shelleyane, tirando la Stone senza nascondere la mano. È un assalto ideologico e (tavolo) operatorio al patriarcato, deriso e sbeffeggiato senza pietà, ridotto chirurgicamente ai minimi termini: la donna che visse due volte, absit iniuria verbis, ce l’ha con noi.

Ma prima di mandarci a brucare ci porta a spasso, irresistibilmente sexy, ineluttabilmente disfunzionale, letalmente autoprogrammata: un po’ burtoniana sposa cadavere, un tot Billie Eilish e un filo Venerdì, affina formazione sessuale ed educazione sentimentale, scansando il bovarismo e tutti, o quasi, gli –ismi per farsi misura, e dittatura, del mondo. Non ci resta che servirle il gin, da ultimo uomo ancora in piedi.