Un giovane ebreo americano (Elijah Wood) va in Ucraina per rintracciare la donna che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva salvato la vita a suo nonno, nascondendolo ai Nazisti. Il ragazzo viene aiutato nella sua ricerca da un quasi coetaneo del luogo che parla un inglese surreale, dal nonno "cieco vedente" e dal suo piscopatico cane guida. L'attore Liev Schreiber esordisce alla regia adattando il romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer spinto dalla vicinanza della storia alla propria biografia. Non era facile portare sullo schermo lo stile letterario pirotecnico e immaginifico di Safran Foer, ancor più con un'opera prima. In effetti, non tutto nel film è illuminato: pur con un cast indovinato e un ritmo scandito senza parossimi, la pellicola è oscurata dagli stereotipi utilizzati abbondantemente per inquadrare l'antropologia ucraina e da una progressione che usa il pathos in chiave ricattatoria. Dato che le sinossi di film e romanzo non divergono, è alla forma cinematografica  - ovvero al regista-sceneggiatore Schreiber - che devono essere ascritti tali limiti. Comunque, il film diverte, emoziona, commuove e colpisce basso - e furbo. Tra ghirigori folk presi "in prestito" al Kusturica ultimo scorso e yiddish mood  alla Train de vie, Ogni cosa è illuminata scorre per 102': prima offrendo generose risate, poi richiudendosi per "invitare" lo spettatore alla riflessione. Il pranzo etico è servito, ma noi frugalmente ci saremmo fermati all'antipasto.