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Tahar Rahim in Monsieur Aznavour
La distanza è dichiarata dal titolo, con quel Monsieur Aznavour che indica riverenza per l’icona culturale, con le immagini a illustrare come un rotocalco la biografia di Charles, nome d’arte del parigino Shahnourh Varinag Aznavourian, figlio di genitori armeni, immigrati e apolidi, diventato uno dei simboli della Francia.
Il terzo film di Grand Corps Malade (al secolo Fabien Marsaud, anche poeta slam e rapper) e Mehdi Idir si concentra sull’ascesa del divo fino alle hit degli anni Sessanta, puntando sulla narrazione dell’underdog e sulle prove a cui viene sottoposto per arrivare al successo: gli effetti piscologici dell’esodo e l’eco del genocidio armeno, l’esempio di una famiglia che non si piega di fronte alla miseria e la straordinaria forza di volontà, l’etica del lavoro e la fame di vita.


Tahar Rahim in Monsieur Aznavour
(Sohemm Ret)Morto nel 2018 dopo aver attraversato il Novecento, Aznavour ha supervisionato la fase embrionale del progetto, suggerendo ai registi di inquadrare soprattutto le origini del mito. Una scelta precisa nel definire lo spirito del biopic, ma che ci dice anche quanto sia importante stabilire una certa distanza dal soggetto rievocato.
Più che aderire all’agiografia, Monsieur Aznavour è schematico e decorativo (fotografia di Brecht Goyvaerts, scenografia di Stéphane Rozenbaum, costumi di Isabelle Mathieu), cronologico e lineare, tiene la grande storia sullo sfondo come se gli eventi fossero contraccolpi di una vicenda soprattutto privata, elude la dimensione più affascinante e problematica dell’uomo che si è fatto da solo (la carriera artistica intesa più in quanto impresa industriale, autopromozione, stakanovismo che esclusivamente come vocazione) e sembra quasi fotografare una monumentalizzazione in fieri evitando qualunque tipo di conflitto.
Una lettura sottolineata dall’interpretazione programmaticamente mimetica, retorica e imbalsamata nel trucco di Tahar Rahim, meno interessante della caratterizzazione che Marie-Julie Baup fa di Édith Piaf, figura cruciale nell’ascesa di Aznavour qui rappresentata con un atteggiamento meno cupo rispetto all’iconografia alla quale siamo abituati.


Tahar Rahim e Marie-Julie Baup in Monsieur Aznavour
(Antoine Agoudjian)E più dell’atto creativo che si rivela a partire dalla vita (c’è il momento in cui “nasce” She che si muove sulle soglie del kitsch, ma anche il pezzo su La bohème è scolastico), a restare è il legame con Pierre Roche, interpretato dal sempre irresistibile Bastien Bouillon: quella tra i due, che si conobbero in un music hall e fecero ditta tra il 1943 e il ’50, è la vera storia d’amore (o d’amicizia) del film, un’unione fondata su un riconoscimento reciproco (condividono la brama di successo, l’edonismo e le passioni), chiusa perché la vita va così e destinata a ritrovarsi in un momento che ci dice cosa il film sarebbe potuto essere e non è.
